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L'INTERVISTA
14 Maggio 2025 - 08:10
Lys Gomis ai tempi del Toro
«I ragazzi di oggi devono capire che, se finiscono nella spirale della droga, possono chiedere aiuto. Non è una sconfitta, anzi: se si chiede aiuto, si evita di distruggersi e si risolve tutto».
Lys Gomis parla quasi senza respirare mentre racconta la sua storia di caduta e di rinascita. Nato a Cuneo da una famiglia di origini senegalesi, in 35 anni ha vissuto tante vita in una: ha realizzato il sogno di tantissimi bambini, arrivando a giocare in serie A con il Torino, ma è anche precipitato nell'incubo della dipendenza da alcol e droga. Ne è uscito con tanta fatica e ora vuole dare l'esempio ad altri ragazzi che sono finiti nella stessa spirale: per questo ha scelto di raccontare pubblicamente la sua storia ed è il testimonial di "Io dico di no", progetto di prevenzione per le scuole e le società sportive. A promuoverlo è l'associazione Narconon, che gestisce la comunità di recupero cui si è rivolto Gomis e che organizza anche un torneo di calcio con ex calciatori, personaggi televisivi, amministratori locali (appuntamento dalle 9 alle 19 del 31 maggio all'impianto sportivo Pozzomaina di Monte Ortigara 78, a Torino).

«Oggi vedo la mia storia come una favola - esordisce l'ex portiere professionista - Sono partito da Cuneo con il sogno di diventare calciatore. Tifavo per il Toro e sono riuscito a entrare nelle giovanili granata quando avevo 12 anni. Poi ho avuto la fortuna, la bravura e la forza di arrivare fino in prima squadra: avevo 16 anni quando mi sono affacciato e sono riuscito ad afferrare il mio sogno. Ricordo che, a luglio 2006, festeggiavo la vittoria dei Mondiali e un mese dopo ero seduto accanto a Simone Barone, che quella coppa l'aveva vinta. Per questo ho continuato a fare sacrifici per conservare quel sogno: ci ho messo tutto me stesso». E i risultati sono arrivati: «Ho vinto il titolo di miglior giocatore al torneo di Viareggio (il più importante torneo per squadre giovanili, ndr): prima di me, come portiere, l'aveva vinto il mio idolo, Gigi Buffon. Poi sono stato il primo portiere africano della serie A: ho fatto la storia, aprendo una strada a mio fratello Alfred e a "colleghi" come Andrè Onana. Sono soddisfazioni enormi».
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In serie A, però, Lys Gomis ha giocato solo una partita. Perché, dopo quell'esordio storico, sono iniziati i prestiti in giro per l'Italia e oltre (ha giocato anche in Romania). Fino al grave infortunio quando giocava a Teramo, in serie C: «Non ho avuto la forza di superarlo e mi sono dato all'alcol. Ho avuto una dipendenza veramente forte che ha causato la rottura del mio sogno: possiamo chiamarla depressione, avevo perso tutti i miei obiettivi e mi sentivo inutile. Era uscito di scena "l'atleta" ed è rimasto "l'uomo" che non era pronto a essere uomo, marito e padre. Non avevo più uno scopo, ero agganciato al passato e bevevo soltanto. Sono stato in condizioni pietose per un paio d'anni, mi stavo autodistruggendo anche perché non vedevo il problema. E non volevo distruggere la mia immagine di ragazzo felice e di successo». Poi è arrivata anche la droga: «Non sopportavo chi usava sostanze e alla fine l'ho presa anch'io, consumando crack e frequentando ragazzi che stavano ancora peggio di me. E intanto vivevo in un mondo di bugie, dando la colpa a tutti tranne che a me stesso. Trascuravo la mia famiglia, cullandomi nel ricordo del mio passato di calciatore ricco e famoso. Facevo soffrire soprattutto mia madre, la stavo uccidendo».
Come ne è uscito? «Ho ritirato fuori la forza che mi aveva permesso di arrivare in serie A. Ne ho parlato con i dirigenti del Toro, come Silvano Benedetti, perché il Toro è la mia famiglia. Poi ne ho parlato con i miei parenti e amici». Ed è emersa la possibilità di affidarsi alla comunità Narconon di Villafranca d'Asti: «All'inizio non volevo perché non mi sentivo "tossico" come gli altri pazienti. Però poi mi sono fidato della dottoressa del Serd che me l'ha consigliata perché lì non usano farmaci: da atleta per me era importante. E mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: "Tu sei morto e non lo sai, devi fare qualcosa per tua figlia"».
A Villafranca d'Asti c'è uno dei sei centri di Narconon sparsi per l'Italia, che ha oltre 50 anni di storia (e anche qualche critica): «Siamo una comunità di recupero per tossicodipendenti ed etilisti - presenta la direttrice, Natasha Benincasa - Li seguiamo con percorsi totalmente naturali perché pensiamo che la dipendenza non sia una malattia ma l'inabilità ad affrontare problemi, emozioni e situazioni della vita: tutti vogliamo divertirci ed essere felici ma non è sempre possibile, quindi qualcuno si fa le canne, un litro di vino o la cocaina perché non riesce a gestire gli imprevisti e l’ansia». Il problema è che queste persone sembrano in aumento: «La tossicodipendenza è sempre stata un problema ma mai come in questi anni: i ragazzi non hanno le giuste informazioni per prendere le loro decisioni, non sanno che le droghe sono cambiate e sono diventate più pericolose. Non si può neanche più fare distinzioni fra leggere e pesanti: anche la semplice marijuana crea dipendenza e porta ad effetti collaterali. Sappiamo tutti che drogarsi uccide ma lo è anche lanciarsi da un grattacielo: allora perché facciamo una cosa e l’altra no? Il nostro progetto di prevenzione serve proprio per dare la giusta informazione». In passato Narconon ha attirato critiche per i suoi metodi e alcuni ex pazienti si sono rivolti al programma televisivo "Le Iene", raccontandone anche i legami con Scientology: «Noi non “aggiustiamo macchine”, noi lavoriamo con le persone e non abbiamo la bacchetta magica - si limita a replicare Benincasa - Se non c’è impegno del paziente, non si arriva al risultato».

Riprende Gomis: «Andare a Narconon è stata la scelta più importante della mia vita: più che rinascere, mi hanno fatto nascere. Perché, per la prima volta, ho potuto togliere la maschera che avevo messo per resistere alle critiche e alle difficoltà del mondo del calcio. Ho capito quanto valgo come uomo e ho accettato di aver smesso di giocare a calcio. Sono arrivato in serie A e anche nella nazionale del Senegal: va bene così, ora è più importante vivere». E adesso vuole raccontare pubblicamente la sua storia per fare prevenzione: «Dando le informazioni giuste si può evitare lo scempio che si vede in giro per le nostre città, anche a Torino. A me sembrava lontano, invece ci sono cascato dentro. E ora voglio usare la mia immagine di calciatore per raccontare di aver abusato di alcol e droga, proprio qui a Torino. Voglio dire ai ragazzi cosa ho fatto e cosa ho perso. E voglio informare ai ragazzi in modo da dare loro il potere di decidere in modo informato: devono sapere che la droga e l'alcol sono solo una soluzione temporanea al proprio disagio. Quel "sollievo" al dolore dura poco e ha tanti effetti collaterali».

Ecco, come si risolve il problema della droga che sta infestando tanti quartieri di Torino? «Spendendo soldi nella prevenzione, senza nascondere il problema sotterrandolo o spostandolo da una zona all'altra. Questo giornale racconta la realtà e fa bene: oggi cominciano a drogarsi a 13 anni e, secondo uno studio del San Raffaele di Milano, l'84% dei 18enni provano le sostanze. Sono numero da brividi, che poi portano al Far West che vediamo nelle periferie torinesi. Se non vogliamo che aumentino morti e problemi, dobbiamo dare un obiettivo a questi ragazzi e far capire loro che cosa perdono: non basta dire "la droga fa male", bisogna spiegare quali sono le conseguenze. Così capiscono, soprattutto se glielo dice un personaggio pubblico: quando vado nelle scuole calcio, mi ascoltano. Rapper e influencer dovrebbero fare lo stesso, usando la loro immagine in questo modo».
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