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Il caso

Suicidio assistito? No, grazie: «Lo Stato ci aiuti a vivere, non a morire»

Quattro disabili vincono alla Corte costituzionale - Intervista al torinese Dario Mongiano e al suo avvocato Carmelo Leotta

Suicidio assistito? No, grazie: «Lo Stato ci aiuti a vivere, non a morire»

«Voglio che lo Stato mi aiuti a vivere, non a morire».

 

Dario Mongiano sintetizza così, in una sola frase, il senso della sua battaglia. E basta quello per spiegare perché lui e altre tre persone con disabilità sono andati fino alla Corte costituzionale per chiedere di non avere accesso al suicidio assistito. Rifiutando, in sostanza, la possibilità di decidere quando mettere fine alla loro vita: «Abbiamo vinto e siamo contenti che lo Stato abbia accolto la nostra posizione».

Il punto di partenza è il giudizio di costituzionalità sull'articolo 580 del Codice penale, quello che definisce il reato di istigazione al suicidio. E che stabilisce anche i casi in cui non è punibile: non c'è reato se, a morire, è "una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che  reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli". In discussione, alla Consulta, c'era la possibilità di togliere il requisito dei trattamenti di sostegno vitale e quindi estendere l'accesso al suicidio assistito a una platea più ampia di malati e disabili.

Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon e P.G.F. hanno deciso di opporsi, assistiti dagli avvocati Carmelo Leotta e Mario Esposito. Ed è stata la prima volta che, in un processo costituzionale, hanno partecipato i malati contro il suicidio assistito: «Riteniamo importante che questa possibilità non venga allargata indiscriminatamente ma rimanga com’è tuttora, altrimenti anche io potrei farvi ricorso» riflette Mongiano dalla sua camera nella Casa Famiglia Frassati di Moncalieri, che lui stesso ha fondato.

Ma questo allargamento sarebbe una possibilità, non un obbligo. Perché opporsi? Risponde il 62enne:  «Certo, però io non voglio che lo Stato dia la facoltà a me di decidere: sarei messo in una condizione troppo fragile perché, nel momento in cui mi trovassi in una situazione di disperazione, potrei suicidarmi. La mia vita sarebbe in pericolo perché meno tutelata rispetto a quella di tutti gli altri».

Aggiunge l'avvocato Leotta: «Io e il collega Esposito siamo contenti e onorati di aver assistito Dario e le altre tre persone. Hanno testimoniato il desiderio di vivere anche in una condizione di sofferenza, dando un messaggio molto positivo a tutta l'Italia. Danno la voglia a tutti di affrontare le difficoltà quotidiane». Ma, soprattutto, hanno messo un punto netto dal punto di vista giuridico: «Giustamente l'obiezione era: "Nessuno vi obbliga, lasciate che gli altri possano farlo". Loro hanno hanno saputo rispondere a questa domanda legittima, spiegando che questa scelta non può essere lasciata a chi, come loro, vive ogni giorno a contatto con la sofferenza». I giudici hanno accolto questa posizione, mettendo nero su bianco perché hanno dato ragione a Mongiano e altri tre ricorrenti. Si legge in un passaggio della sentenza: " In un contesto storico caratterizzato da tensioni sull'allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto diritto di morire potrebbe essere percepito dal malato come un dovere di morire per non essere di peso, con un grave abbassamento della sensibilità morale e collettiva che tutela le persone più fragili, spesso invisibili".

Sottolinea ancora il legale: «La Corte ha spiegato che, per alcune persone, il passaggio dal diritto al dovere è un attimo. E si è schierata in modo netto, con una frase di grande realismo».

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