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IL CASO
27 Giugno 2025 - 05:00
Urbano Cairo insieme a Silvio Berlusconi
Urbano Cairo, questo Berlusconi bonsai, che ha deciso di interpretare l’imitazione low cost del Cavaliere con due grandi passioni: la televisione e il calcio. La prima, La7, un network nato per essere alternativo e che, sotto la sua egida, è diventato una specie di appendice audio-video della direzione nazionale del Partito Democratico; la seconda, il Torino FC, una squadra nobile con una storia drammatica, ormai ridotta alla versione calcistica di un discount dove si vende tutto ciò che è vendibile, tranne, ahimè, il presidente.
Partiamo dalla televisione, che a Cairo deve sembrare un giocattolo meraviglioso, una collezione di soldatini vintage con cui divertirsi. Ha assemblato una squadra di conduttori che sembrano direttamente estratti con il metodo del carbonio-14 dalla Prima Repubblica, come Corrado Augias e Lilli Gruber, campioni olimpici di trombonismo televisivo. La Gruber, in particolare, ci regala ogni sera il piacere di vedere come la faziosità possa indossare gioielli costosi e abiti sartoriali senza perdere un briciolo della sua maliziosa irritabilità da anziana severa professoressa che non accetta contraddittorio, se non per sottolineare quanto abbia ragione lei.
Accanto ai dinosauri della TV, Cairo ha deciso di puntare anche su conduttori che sembrano più giovani, come Giovanni Floris e Corrado Formigli, uomini che hanno imparato perfettamente l’arte di apparire equidistanti soltanto a chi la pensa esattamente come loro. Formigli ormai è specializzato in un tipo di giornalismo che potremmo definire agonistico: fare domande più lunghe delle risposte dei suoi ospiti, per poi interromperli subito dopo, come se la politica fosse una gara a chi parla di più senza dire nulla. Floris, d’altro canto, ha affinato l’abilità straordinaria di formulare domande talmente retoriche che la risposta è superflua, tanto si sa già dove vuole andare a parare: a sinistra, sempre a sinistra.
Ecco quindi che La7, sotto la direzione illuminata di Cairo, si è trasformata nella rete dell’opposizione perpetua: una specie di giornale parlato del PD contro chiunque stia a Palazzo Chigi. Certo, è legittimo, ma qualcuno potrebbe ricordargli che non siamo obbligati a prenderlo sul serio. D'altronde, il giornalismo è fatto così: chi paga, comanda e i giornalisti attaccano il ciuccio dove vuole il padrone. E Cairo comanda con quel suo tono da imprenditore che cerca disperatamente di sembrare carismatico come il grande modello, Berlusconi, senza averne né la storia né il talento naturale.
Ma Cairo non si limita a giocare con la TV. Non gli basta. Vuole essere un uomo del popolo, vuole l’emozione del campo di calcio, e ha scelto il Torino FC per coltivare questa sua ambizione un po’ provinciale. Il Torino, però, non è una squadra qualunque. Ha un passato glorioso e tragico insieme, una storia fatta di trionfi e lutti che esige rispetto, passione, cuore. Tutte cose di cui Cairo sembra non aver traccia.
Lui ha comprato il Toro con l’entusiasmo di chi rileva un magazzino di merce invenduta per rivenderla a pezzi, con calma, cercando sempre il profitto. La sua gestione è tutta lì, chiarissima nei fatti: ogni anno vende i migliori giocatori, li cede con precisione chirurgica prima che possano far sognare troppo i tifosi, prima che possano pretendere qualcosa di più di una salvezza stentata e un quattordicesimo posto dignitoso. Cairo non vuole un Toro vincente: vuole un Toro che galleggi, che stia a metà classifica, abbastanza per garantire visibilità, ma non abbastanza per pretendere investimenti seri.
La squadra è diventata lo specchio della mediocrità del suo presidente, che la tiene ostaggio per motivi che vanno ben oltre il calcio: marketing, pubbliche relazioni, presenzialismo. I tifosi, per parte loro, non chiedono più scudetti o qualificazioni in Europa: chiedono solo una cosa, ormai, liberarsi di Cairo. Lo gridano in ogni occasione, lo scrivono sui muri, lo cantano allo stadio. Vogliono che Cairo venda, che lasci libero il Toro dalle sue grinfie, che smetta di usarlo come un palcoscenico secondario per le sue ambizioni personali, magari politiche.
Perché sì, la sensazione, mai confermata ma sempre sottintesa, è che prima o poi Urbano Cairo voglia davvero scendere in politica, come il suo idolo e modello Silvio, ma il Berlusca portò il suo Milan in cima al mondo. Cairo, però, non ha il carisma del Cavaliere né la capacità di trasformare in oro tutto quello che tocca. Anzi, tutto quello che tocca sembra destinato a restare sempre un po’ grigio, sempre un po’ deludente.
Forse è per questo che non si è ancora deciso a fare il grande salto: non può permettersi il rischio di un’altra mediocrità, questa volta elettorale. Per ora gli basta questo teatrino televisivo e calcistico, in cui è lui il padrone indiscusso. Urbano Cairo, insomma, il re della mezza misura, perfetto rappresentante di quell’Italietta che ha sempre paura di diventare davvero grande.
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