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le mostre e le curiosità
15 Luglio 2025 - 16:30
Sulla prima collina torinese, al civico 75 di corso Giovanni Lanza, sorge un complesso architettonico carico di memoria e significato. Quello che oggi è sede di Flashback Habitat, polo culturale multidisciplinare, è stato per decenni il brefotrofio della Provincia di Torino, l’Istituto Provinciale per l’Infanzia e la Maternità (IPI).
L’istituto, operativo dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni Ottanta, era destinato ad accogliere neonati abbandonati o in pericolo di abbandono. Nasce su un sito già carico di storia: quello della Clinica Sanatrix, attiva tra il 1929 e la Seconda guerra mondiale, dove vennero curate personalità come Fausto Coppi e dove trovarono rifugio perseguitati politici e razziali, sotto la protezione del medico e partigiano Armando Ceratto.
Il brefotrofio fu improntato su modelli educativi all’avanguardia per l’epoca: non solo assistenza e cure mediche, ma attenzione allo sviluppo emotivo e affettivo dei bambini. Per oltre trent’anni, in quelle stanze passarono centinaia di vite appena iniziate, molte delle quali segnate da anonimato, silenzi, separazioni.
Dall’edificio, ancora oggi in parte in disuso, si apre un suggestivo scorcio su Torino: la verde infilata degli alberi di corso Vittorio Emanuele II è visibile da terrazze e finestre, un contrasto poetico tra natura, memoria e città.
Negli ultimi anni, lo spazio è stato riattivato grazie a Flashback Habitat, un progetto culturale che trasforma questo luogo sospeso nel tempo in un laboratorio permanente di arte, comunità e memoria. Al centro del giardino sorge un padiglione con “Il Circolino”, bistrot e punto di ritrovo per eventi, musica e incontri.
Tra le iniziative più forti, spiccano mostre e installazioni che rileggono la storia dell’IPI attraverso linguaggi contemporanei. Un esempio è “Una vita migliore”, mostra dedicata ai frammenti di storie legate al passato del brefotrofio, con fotografie, racconti e oggetti evocativi.
All'interno dell'edificio che ospita il circolo Flashback Habitat, dal 3 aprile 2025 al 27 luglio 2025, troviamo la mostra temporanea "Fondato sul lavoro", una critica al mondo del lavoro. L'esposizione mette in scena un percorso potente e lucido attraverso il lavoro umano, le sue trasformazioni, i suoi abusi e le sue assenze.
Il titolo riecheggia volutamente l’articolo 1 della Costituzione italiana, ma ne capovolge la prospettiva: non è la Repubblica a essere fondata sul lavoro, ma è l’essere umano a essere fondato dal lavoro. Un gesto che segna il corpo e la psiche, che determina chi siamo, nel bene e nel male. Lavorare è spesso costruirsi – ma anche consumarsi.
Ventisei opere, che vanno dall’antichità alla contemporaneità, dialogano in un confronto serrato tra culture, linguaggi e secoli. Si va da ceramiche attiche e orientali che evocano il lavoro invisibile delle donne e degli schiavi, al realismo industriale dell’Ottocento, fino ad arrivare all’arte concettuale più cruda e politica del nostro tempo. Ma è nelle opere più contemporanee che la ferita si apre del tutto.
Due lavori in particolare risuonano come campane a morto. Non solo per la loro forza simbolica, ma per la delicatezza con cui restituiscono dignità alle vittime:
Sette corpi in cera, a grandezza naturale, accolgono chi entra in una delle sale centrali della mostra. Sono umani, silenziosi, vulnerabili. Ogni figura ha un piccolo stoppino incastonato, come una candela. E infatti bruciano, lentamente. La cera cola sul pavimento come sangue e sudore. È Una sola vita (2011), opera di Francesco Sena, realizzata per ricordare i sette operai morti nel rogo della ThyssenKrupp nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007:
Antonio Schiavone, Roberto Scola, Bruno Santino, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, Rocco Marzo e Angelo Laurino.
Sena, presente ai funerali delle vittime, rimase colpito da una scena apparentemente semplice: alcuni posti vuoti, e delle candele accese. “Quel fuoco era la voce di chi non c’era più”, racconta. Così nacque l’opera: una veglia funebre perenne. Un’installazione che costringe a guardare il dolore, a sentire l’odore della cera, il peso della perdita. Non è spettacolo, è testimonianza. È l’arte che si fa carne per chi non ha più voce.
L’altra opera che punge come una scheggia dolceamara è Non solo le stelle brillano (2020), una canzone di Ottavia Brown dedicata alle Radium Girls. All’inizio del Novecento, centinaia di giovani donne furono impiegate in fabbriche americane a dipingere quadranti di orologi con vernice al radio, ignare della sua letalità. Morirono lentamente, consumate da quello stesso “bagliore” che dovevano applicare con precisione sulle lancette del tempo.
La Brown canta la loro storia con voce ferma, con parole che sono carezze e lamenti: “non solo le stelle brillano”, canta, “ma anche quelle che cadono senza far rumore”. È una canzone che accarezza le ossa del lavoro femminile dimenticato, e allo stesso tempo rivendica la potenza di queste figure che, pur nel silenzio, hanno illuminato il mondo.
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