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ESCLUSIVO
06 Aprile 2023 - 09:48
Giulia Pairone
«Ad agosto 2012 siamo andati a New York per gli Us open. È stato il viaggio più devastante per me. Lui mi chiedeva sempre di andare nel suo letto alle sera e mi continuava a toccare. Giocai malissimo». Giulia Pairone, campionessa di tennis, non si sente (più) una «vittima». Perché ha scelto, oggi, a 27 anni, di raccontare la sua «storia». Si è liberata da un peso grazie al coraggio e a un percorso di psicoterapia. Da Torino è volata negli Usa, dove si è laureata in psicologia dello Sport. Oggi la tennista sarà in tribunale a Ivrea come parte civile, assistita dalla sua avvocata Annalisa Baratto, al processo contro il suo ex allenatore, che lei ha denunciato per maltrattamenti e violenza sessuale. «L’ho fatto - racconta Giulia - non per un motivo personale, ma collettivo. Vorrei che la mia storia non fosse solo mia, ma di tante donne che hanno subito una violenza. Negli Usa mi sono sentita parte del movimento MeToo. E vorrei dire a tutte che sono una sopravvissuta. Ho subito violenza ma non sono più vittima. Raccontando la mia storia, mi riprendo la mia voce».
Nella lunga denuncia depositata dall’avvocata Baratto, la campionessa ripercorre le tappe del suo vissuto. Lo sport che fa parte della sua vita dai tre anni. Gli allenamenti quotidiani e quel rapporto sempre più “morboso” con il coach. Le telefonate serali, i continui messaggi, la «manipolazione e il controllo affettivo», sintetizza la pm Elena Parato, che contesta presunti maltrattamenti (di natura psicologica) dal 2009 al 2013. «Mi diceva che dovevo andare a scuola in tuta. Che non potevo parlare con i miei amici. Che non potevo avere un ragazzo», altri passaggi della querela. La pm descrive le condotte dell’imputato come forme di «controllo, costante, della sua vita privata». Giulia denuncia di essere stata «manipolata» fin da quando era ragazzina. Il coach dopo gli allenamenti la accompagnava a casa, poi le telefonava. «Per tre anni di seguito». La domenica si presentava a casa sua. Secondo l’ottica dell’accusa, per «controllarla ed esercitare una forma di dominio sulla sua persona». Le “umiliazioni” verbali sarebbero state all’ordine del giorno: «Hai un bel c...». E in trasferta l’imputato avrebbe preteso che la giovane dormisse nella sua camera. L’accusa di violenza sessuale è riferita a presunti e ripetuti palpeggiamenti. «Esigeva che mi sdraiassi nel letto con lui», quanto viene ribadito nella querela. In un passaggio, la tennista racconta: «Al Roland Garros nel 2013, mi venne il fuoco di Sant’Antonio. Persi al secondo turno. Tornata a Torino, mi venne un attacco di panico sul campo. Non riuscivo a respirare». Il corpo manifesta i primi segnali. «Me ne sono andata da quel campo e non ho mai più messo piede lì - scrive la ragazza nella denuncia - era il 2013. Perdevo capelli, aumentavo di peso, ho avuto attacchi di panico». Giulia sceglie di affidarsi, saggiamente, alla psicoterapia e soltanto dopo un lungo percorso realizza i ricordi del passato. Dagli Usa torna in Italia, laureata e pronta per affrontare il processo. Per l’imputato, ovviamente, vige la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Oltre alla violenza sessuale, la procura gli contesta maltrattamenti che si sarebbero susseguiti per almeno quattro anni: «pressioni psicologiche», tentativi di isolare l’atleta dagli amici riducendola a «uno stato di prostrazione, terrore, avvilimento, sofferenza fisica e morale».
«Mi fidavo di lui, vedevo in lui la persona che mi avrebbe portata a diventare una grande campionessa di tennis - racconta Giulia, nella denuncia - mi diceva che ero come una figlia e che non dovevo considerare il suo toccarmi come se fosse attratto da me sessualmente».
Oggi la tennista ha una nuova consapevolezza: «Tante donne che subiscono violenza non hanno voce. Mi sento di potere ispirare altre ragazze che vivono la mia situazione nello sport. Vorrei che imparassero a riconoscere una violenza, che cambiasse una certa mentalità. I coach hanno accesso a ragazze giovanissime. L’allenatore ha molto potere su di te. A volte sei plagiata. Spero che il mio caso possa servire a riconoscere la violenza e a fermarla».
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