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L'intervista
23 Aprile 2023 - 21:40
Nel suo ultimo libro “Il purgatorio dei vinti” Gianni Oliva racconta la storia dei prigionieri fascisti che, dopo il 25 aprile, sono stati internati nei campi di concentramento degli Alleati a Coltano in provincia di Pisa, ma anche a Padula, Scandicci e Rimini. Oltre 30mila persone tra cui nomi già illustri, come il poeta Ezra Pound e altri che lo sarebbero diventati anni dopo. Da Raimondo Vianello a Walter Chiari, passando per il giornalista Mauro De Mauro o il futuro ministro Mirko Tremaglia. I vinti della guerra civile, gran parte giovanissimi che erano andati in cerca della “bella morte” aderendo alla Repubblica di Salò. Una storia decisamente poco nota, quasi rimossa in un’Italia che ha scelto una narrazione «assolutoria» e individuato un «capro espiatorio» in quei ragazzi «per rifarsi una verginità».
Professor Oliva, perché occuparsi di Coltano e dei campi di concentramento in cui gli Alleati imprigionarono migliaia di italiani dopo l’8 settembre?
«Il periodo tra il 1943 e il 1945 è stato un momento fondante della nostra storia repubblicana, ma anche soggetto a interpretazioni come la narrazione dei fatti con cui è stata educata la mia generazione. Si presentava il fascismo come un regime dittatoriale, che ha tenuto insieme l’Italia con la repressione e da cui ci siamo liberati con la resistenza il 25 aprile. Insomma, ci eravamo “rifatti una verginità” e potevamo ripartire da capo».
E cosa è stato il fascismo?
«Il fascismo è stato un regime che ha tenuto insieme il Paese non solo con la repressione. Mussolini è stato il primo leader in Europa a capire che con la Grande Guerra era nata l’opinione pubblica. E che, se si voleva imporre un regime autoritario, non bastavano più solo violenza o repressione. Ci volevano anche il controllo della formazione, quindi la scuola e dell’informazione. Il risultato è stato il totalitarismo, che in Italia non è stato sicuramente esasperato come nella Germania di Hitler o nell’Unione Sovietica di Stalin, ma ne è stato il prototipo. Tutti i nostri nonni durante il fascismo non erano più alunni della 2A o della 3B, ma “balilla”, “figli della lupa”…»
Nel suo libro un personaggio come Raimondo Vianello racconta la propria esperienza a Salò senza troppi infingimenti. Perché, dopo il 25 aprile, per molti è stato l’opposto, come se sotto i balconi di Mussolini non ci fosse stato mai nessuno?
«Il 10 giugno 1940, quando Mussolini annunciò l’entrata in guerra, sotto il balcone ci fu un delirio da stadio: come se Ronaldo avesse segnato in rovesciata. Non era una piazza di “precettati”. Quel discorso venne trasmesso dagli altoparlanti in tutta Italia, in piazze piene di giovani che ovunque reagirono così».
Quel ricordo è stato “rimosso” da gran parte degli italiani?
«La “vulgata” che la mia generazione ha conosciuto considerava il fascismo come un esercizio di violenza, da cui ci si era liberati con piazzale Loreto, da una parte e con il referendum del 2 giugno, dall’altra. Insomma, si poteva ripartire, ma chi erano a quel punto i cattivi? Chi era rimasto fascista dopo l’8 settembre andando a Salò. Peccato che, per la maggior parte, fossero ragazzi dai sedici ai diciotto anni. Se penso a quali slogan folli ho gridato a quell’età, nei cortei del ’68, posso dire che se fossi stato un giovane nel ventennio avrei scandito esattamente gli slogan che furono di mio padre, mio nonno e gli altri».
Eppure in Italia c’è stato chi, come Dario Fo, lo ha negato...
«La sua colpa non è stata quella di andare a Salò ma il modo in cui lo ha negato».
Perché questa rimozione?
«Nel caso di Fo credo sia stato opportunismo. Immaginare che il fascista, dopo la guerra, fosse solo il “repubblichino”, ha permesso di assolvere tutti gli altri e dimenticare qual era la posizione della classe dirigente che è transitata da prima a dopo senza colpo ferire».
Ad esempio?
«Pensiamo al giuramento di fedeltà al regime chiesto a tutti i professori universitari nel 1931. Tutti i libri citano i tredici professori che hanno detto “no” ed è giusto ricordarli, però i professori quell’anno erano 1.848».
E gli altri 1.835?
«Uno di loro, Norberto Bobbio, con molta onestà intellettuale scrisse, anni dopo, che “per farci giurare il fascismo non dovette neppure battere il pugno sul tavolo. Bastò un aggrottar di ciglia”».
Ma non fu lo stesso con Salò...
«Non ho scritto questo libro per rivalutare la Repubblica di Salò. Ci mancherebbe. Il giudizio sulla Repubblica sociale lo ha già dato la storia. È indubbio che quella fosse la parte sbagliata della storia. Ma un’altra cosa è pensare che il bene e il male attraversassero le coscienze delle persone in modo così netto. Le scelte l’8 settembre le hanno fatte i giovani, i giovanissimi e in molti casi furono scelte casuali, come per Raimondo Vianello che ammette onestamente di essersi “schierato dalla parte sbagliata” della storia».
Salò non è l’unico fatto storico divisivo in Italia. Sulle Foibe la sinistra ha “sdoganato” la verità storica solo negli ultimi anni. Perché?
«Le ricostruzioni storiche sono figlie del tempo. Nel 1945 l’Italia ha perso la guerra. Lo ha mai letto, così, sui manuali di storia? Io no. Ho sempre letto che l’Italia il 25 aprile si è “liberata”. E invece avevamo perso. Però abbiamo fatto finta di vincere».
Per quale ragione?
«Bisognava far transitare dal prima al dopo l’intera classe dirigente d’allora».
Una assoluzione collettiva?
«Abbiamo scelto di non discutere del perché eravamo finiti in guerra. O di fosse la colpa se le masse esultavano in piazza nel 1940. Non certo del contadino o dell’operaio, ma della classe dirigente che formava quelle generazioni. Abbiamo immaginato il fascismo come una “camicia di forza”. Che i delinquenti fossero andati tutti a Salò, così da poter negare tutto ciò che ricordava la sconfitta. E lo stesso silenzio c’è stato sulle Foibe. Non solo da parte del Pci di Togliatti».
Come è avvenuta la transizione della classe dirigente che per vent’anni era stata fascista?
«In Italia dopo la guerra è cambiata la “classe politica”, si è passati da Mussolini a De Gasperi. Non gli “apparati”. Lo raccontano fatti come i funerali delle vittime di piazza Fontana nel 1969. Vi si recò l’allora presidente della Camera, Sandro Pertini, che si rifiutò di stringere la mano al questore di Milano, Marcello Guida, voltandogli le spalle perché nel ventennio era stato il direttore del carcere di Ventotene dove lo stesso Pertini era detenuto come antifascista. Ma posso anche citarle il caso del primo presidente della Corte costituzionale: Gaetano Azzariti. Nel 1938 era il presidente del Tribunale della razza. Ecco. Questa continuità imbarazzante implicava una lettura del passato assolutoria e l’individuazione di un capro espiatorio».
E in chi lo si è trovato?
«Nei cosiddetti “ragazzi di Salò”. Per questo ho scritto questo libro: un contributo per rileggere quella storia e inquadrarla nel suo contesto».
Lei è uomo di sinistra. Un militante, un politico. Come storico le è capitato di essere criticato per aver trattato questi temi?
«Quando nel 2000 ho scritto un libro sulle Foibe ho ricevuto ottime recensioni sui quotidiani. L’unica stroncatura da l’Unità: il giornale del partito in cui militavo. Da qualche anno non ho più la tessera, ma non per polemica. E quindi, sì, qualcuno ha sollevato perplessità e dubbi».
Perché, secondo lei?
«Perché parte della sinistra è rimasta legata a una “lettura tradizionale” della storia. Più o meno “ortodossa”».
E non le è mai pesato?
«Mi sono laureato a Torino con Alessandro Galante Garrone. Mi ha insegnato che “quando scrivi un libro di storia nessuno deve capire per chi voti”».
A sinistra è ancora difficile riflettere su certi temi?
«Io credo che in Italia ci sia una grossa difficoltà politica, sia a destra che a sinistra, nell’essere progettuali. Io la politica l’ho fatta per anni a tempo pieno e credo che sia bello avere contrasti, ma sui progetti per il futuro. Non essendoci più capacità progettuale si cerca l’identità nel passato. E si trasformano in bandiere gli argomenti storici».
L’hanno mai accusata di essere “revisionista”?
«La storia è sempre revisionista perché gli storici rivedono i giudizi alla luce di nuovi documenti e domande. Oggi il termine “revisionista” ha una accezione diversa, indica chi nega il passato per rivalutare la destra. E io, certo, non mi sento revisionista in questo. Nel senso filologico, invece, sì».
È la vigilia del 25 aprile e le polemiche non mancheranno. Prima o poi ne usciremo?
«Ormai la politica parla solo più alla “curva sud”. Credo che queste polemiche finiranno quando la politica tornerà ad occuparsi del futuro. Il problema è che in Italia con Tangentopoli è stata estinta una classe dirigente senza che ce ne fosse una di ricambio. Da trent’anni non c’è più una maggioranza che sia durata da una legislatura all’altra, cambiando addirittura nel corso della stessa. Il nostro dibattito pubblico continua a concentrarsi sulle Foibe e sul 25 aprile, oppure, sui migranti. E il resto? La sanità a pezzi? La formazione e l’occupazione? Non se ne parla. Perché nella politica, oggi, non c’è capacità progettuale».
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