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09 Marzo 2024 - 21:52
Il palazzo si trova nel bel mezzo del quartiere dello spaccio ma non è nemmeno tra i più brutti. E infatti si fa fatica a pensare che in quel bel condominio col prato all’inglese, colonne che richiamano antichità e tanto verde sulle balconate si vivesse nell’incubo. Eppure un incubo lo è stato per anni per tante donne, una decina almeno o forse anche di più. Mamme con figli piccoli, ragazze portate lì dai loro fidanzati (pure loro dipendenti dal crack), persino studentesse universitarie. Tutte nel tugurio di via Urbino, a un amen da piazza Baldissera e da corso Principe Oddone, per prostituirsi in cambio di droga. Io ti vendo il mio corpo, tu mi dai il crack così lo fumo. E il giro ha funzionato per anni in via Urbino, finché è stata proprio una studentessa universitaria a vuotare il sacco e denunciare tutto ai carabinieri. A capo di tutto c’era Monique, transessuale 51enne, già condannata a 2 anni e 8 mesi di reclusione in rito abbreviato mentre si è appena concluso il processo per i suoi due complici che gestivano gli incontri con lei nella casa del crack: alla fine, il giudice li ha assolti entrambi. Ad aprile, invece, i due pusher che rifornivano di droga l’appartamento di via Urbino avevano patteggiato oltre un anno di carcere. Ma a far rabbrividire erano i racconti delle donne costrette a fare sesso con i clienti in cambio di un po’ di droga. «Studiavo psicologia all’università e per pagarmi il crack mi prostituivo nella casa», la testimonianza shock della studentessa che ha denunciato. «Sono rimasta in quella casa per 4 giorni e ho fatto sesso con 30, forse addirittura 40 uomini», il racconto di un’altra vittima. Ma come funzionava il giro? Le ragazze in astinenza da crack suonavano il campanello di Monique, e quest’ultima apriva loro la casa. Le vittime si vendevano per 20 o 30 euro, ma invece dei soldi (che andavano a Monique e ai pusher) ricevevano la droga da fumare. Ed erano così dipendenti dallo stupefacente che restavano nella casa di via Urbino a fumarlo, anche per più giorni. In condizioni igienico-sanitarie pietose. Ora, quello stesso appartamento da incubo è abitato. Al suono del campanello, apre un giovane straniero, che però appena si vede inquadrato chiude a doppia mandata la porta. La voglia di parlare dell’argomento tra gli inquilini è poca, anche da parte di quei condomini che in passato avevano fatto un esposto per denunciare il giro di prostituzione: «Non ne voglio più sapere niente, grazie», risponde cortesemente un inquilino raggiunto al telefono. Nemmeno l’amministratore dello stabile, contattato più volte, si fa vivo. All’ultimo piano abita una famiglia, marito e moglie con i bambini piccoli: «Sapevamo che c’era un via vai, immaginavamo per droga. Non certo per prostituzione», ammettono. Il signor Renato, mentre esce dall’ascensore per rincasare, racconta: «Io e mia moglie ce ne vogliamo andare da anni, vogliamo dimenticare questo posto». Poche parole, a dimostrazione che però tanti (o forse tutti) sapevano quello che succedeva. Ma che è rimasto segreto finché una ragazza, per uscire dal suo incubo, ha vuotato il sacco.
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