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45 ANNI DI MISTERI
12 Maggio 2023 - 07:00
Il giorno del rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo 1978, nell’ora dell’eccidio di via Fani, Corrado Guerzoni, che era il suo addetto stampa, telefonò a casa dello statista, ma il presidente della Dc era già uscito. Di quei 55 giorni, di quella lunga agonia dell’ideatore del compromesso storico, Guerzoni non ne ha mai voluto parlare apertamente: «Renderei pubbliche vicende che farebbero soffrire la famiglia. Nella mia vita io non dirò mai nulla che in qualche modo possa dispiacere, direttamente o indirettamente, alla signora Eleonora».
Custode di segreti
Guerzoni è stato il più fedele collaboratore di Moro, virtù che in una lettera gli fu riconosciuta anche da Giulio Andreotti: «Aldo andrebbe fiero della sua totale devozione...». Oggi sono tutti morti: Moro, Andreotti, Cossiga, Fanfani, Berlinguer, Craxi. Sono stati i protagonisti politici in quei terribili 55 giorni. Non c’è più neppure Corrado Guerzoni, se ne è andato il 1 ottobre 2011 a ottantun anni; da tempo era in pensione. Dopo la morte di Moro, Guerzoni era tornato alla sua professione di giornalista, aveva diretto RadioDue e aveva concluso la sua attività come vice direttore generale Rai. Negli ultimi anni era stato avvicinato con insistenza da giornali, radio e televisioni perché parlasse, accusasse, ricostruisse (lui forse l’unica persona a poterlo fare davvero) i 55 giorni più bui della Repubblica. Una volta aveva accettato (con Lucia Annunziata), ma senza spingersi troppo in là.
I depistaggi
Aveva manifestato la sua avversione per Francesco Cossiga (ministro dell’Interno durante la fase del rapimento) per come aveva gestito le indagini (influenzato - forse a sua insaputa - da logge segrete e servizi stranieri) e perché aveva pronunciato il no definitivo alla trattativa. Di Corrado Guerzoni restano poche confidenze. «Figuriamoci - raccontava - se i brigatisti che conosciamo, quelli che poi sono stati arrestati per il rapimento e l’omicidio del Presidente, fossero in grado di mettere in atto un agguato come quello di via Fani.
Il gruppo di fuoco
Lì hanno agito professionisti bene addestrati. Io conoscevo gli uomini della scorta ed erano tutt’altro che sprovveduti. Di fronte a dei dilettanti avrebbero risposto al fuoco e impedito il rapimento. No, non basta essere colti di sorpresa. L’agguato era stato pianificato da veri professionisti e ritengo fossero stranieri». Guerzoni ricordava testimonianze e verbali di quel giorno. «Ad un certo punto - spiegava - , dopo aver rapito il Presidente, i terroristi dovettero fermarsi in via Casale De Bustis (e non in via Massimi come erroneamente sostiene Moretti), all’incrocio con via Gherzi per tagliare con una tronchese la catena che bloccava il passaggio. Una testimone che abitava proprio in via Gherzi, in una palazzina che affaccia dove l’auto si fermò, dichiarò che quelle persone dialogavano in una lingua straniera, forse in tedesco».
Tutti liberi
Una pista che gli investigatori non hanno mai seguito e che forse avrebbe portato ad una verità molto diversa da quella che si conosce oggi. «Non dimentichiamo - concludeva Guerzoni - che la ricostruzione del rapimento del Presidente l’abbiamo appresa solo ed esclusivamente dalle parole degli ex terroristi, oggi pentiti o dissociati e tutti in libertà».
Le indagini
Moro rapito come il giudice Sossi», fu questa la prima convinzione degli investigatori subito dopo la strage di via Fani. «Un errore grossolano, non so se voluto», commentò anni dopo Corrado Guezoni. Che le cose fossero molto diverse lo si comprese qualche giorno dopo il rapimento, quando in una seduta spiritica che riunì attorno ad un tavolo Romano Prodi, Alberto Baldassarri e Alberto Clò, spuntò il nome di Gradoli, pronunciato, come Prodi ebbe modo di spiegare, da due entità che il professore riconduceva a La Pira e don Sturzo. Mai una seduta spiritica fu presa tanto sul serio, e Gradoli, piccolo comune sul lago di Bolsena, fu perquisito da cima a fondo. A nulla valsero le insistenze di Eleonora Moro che chiese all’allora ministro dell’Interno Cossiga di verificare se a Roma esistesse una via Gradoli: «Non c’è nelle Pagine Gialle», si sentì rispondere.
I depistaggi
Corrado Guerzoni non ha mai fatto mistero delle sue convinzioni: «Almeno nel momento del rapimento hanno partecipato elementi stranieri». Si riferiva ad agenti capaci di concludere senza sbagliare un solo colpo un raid impossibile per i «brigatisti che poi hanno gestito il rapimento». C’è poi la lettera, palesemente falsa, lasciata in un cestino dei rifiuti a Roma: «Il presidente è morto il cadavere si trova nel lago della Duchessa». Altra concentrazione di forze per cercare un corpo in un lago ghiacciato, mentre, verosimilmente, in una Roma sguarnita i brigatisti trasferivano Moro da una prigione all’altra.
Lo 007 americano
Condoglianze frettolose alla famiglia e la decisione di non trattare con le Br. Nella sala dell’unità di crisi allestita a Forte Boccea, era di casa un alto funzionario dei servizi segreti americani, mandato lì dall’ambasciatore, forse la voce più ascoltata dall’allora ministro dell’Interno. E poi c’è quella perquisizione che in via Montalcini (ultima prigione del presidente Dc) non venne effettuata «perché nessuno rispose al citofono di casa». Misteri, mai chiariti del tutto: forse la seduta spiritica, così lo stesso Prodi ha fatto intendere, sarebbe stato l’escamotage per indicare un nome (Gradoli) appreso in via confidenziale ad ambienti universitari bolognesi vicini all’autonomia. Ci sono poi le posizioni di Lanfranco Pace e Franco Piperno, i due leader di Potere Operaio, entrambi convinti della necessità della trattativa. Fungevano da ponte tra anonimi fiancheggiatori delle Br e il vice segretario del Psi Claudio Martelli.
Le trattative
Non del tutto chiarito neppure il ruolo di don Antonio Mennini. Spinse anche lui per una trattativa, e l’accordo sembrava ormai raggiunto: la liberazione per motivi umanitari di un terrorista malato in cambio di quella di Moro. Amintore Fanfani che stava rappresentando questa possibilità in una riunione della direzione Dc, in pieno accordo con il presidente Leone che avrebbe firmato la grazia, fu interrotto dalla tragica notizia: «Moro è stato ucciso, il suo corpo è nel bagagliaio di un’auto in via Caetani».
Le non verità
Nel corso degli anni ci sono stati cinque diversi procedimenti giudiziari con più di una decina di sentenze, una sesta inchiesta avviata (“Il Moro sesties”); i fin troppo particolareggiati racconti dei brigatisti rossi; il lungo lavoro di una commissione parlamentare d’inchiesta; l’impegno di un altro organismo parlamentare (la commissione stragi); almeno una ventina di libri. Eppure l’ombra di Aldo Moro continua a muoversi nelle segrete stanze del potere con il suo fardello di misteri, di punti non chiariti, di dubbi ed interrogativi. Anche se il tempo trascorre e ci allontana sempre più da quei tremendi 55 giorni, il caso Moro continua a rappresentare il nodo dei nodi dei misteri d’Italia.
Gli interrogativi
Sommersi dallo stillicidio di notizie, spesso contraddittorie, che da quasi un quarto di secolo ci vengono propinate con ossessiva regolarità, è sempre più facile giungere ad una conclusione: sul caso Moro, la volontà di attacco allo Stato di un manipolo di terroristi si è perfettamente intrecciata con la capacità di quello stesso Stato di gestire l’intera, tragica vicenda a proprio vantaggio. A distanza di tanti anni ancora non sappiamo: quanti brigatisti parteciparono all’assalto; se tra loro ci fossero elementi esterni; dove Moro fu custodito; cosa il prigioniero raccontò ai suoi secondini, che fine fece il suo “memoriale”, chi decise di ucciderlo e, soprattutto, perché.
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