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Un caffè al cianuro per il banchiere Dc amico della mafia

Il 20 marzo 1986, due giorni dopo la condanna all'ergastolo per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, il banchiere Michele Sindona, giudicato mandante del delitto, fu avvelenato in seguito all'ingestione di caffè al cianuro di potassio in una cella del supercarcere di Voghera. Morì all'ospedale dopo due giorni di coma profondo. Sindona era stato visitato in carcere da Carlo Rocchi che lo aveva rassicurato dell'aiuto degli americani per le sue vicende.

La sua morte è stata archiviata come suicidio poiché il cianuro di potassio ha un odore particolarmente pregnante e quindi ne risulta difficile l'assunzione involontaria. Il comportamento e i movimenti di Sindona stesso lo confermavano, facendo pensare a un tentativo di auto-avvelenamento per essere estradato negli Stati Uniti, coi quali l'Italia aveva un accordo sulla custodia di Sindona legato alla sua sicurezza e incolumità. Quindi un tentativo di avvelenamento lo avrebbe riportato al sicuro negli Stati Uniti. Sindona fece di tutto per ottenere l'estradizione negli Stati Uniti e l'avvelenamento, secondo l'ipotesi più accreditata, fu l'ennesimo tentativo.

Quella mattina andò a zuccherare il caffè in bagno e come ricomparve davanti alle guardie carcerarie gridò: «Mi hanno avvelenato!». Resta comunque plausibile l'ipotesi che la persona, fino a oggi ignota, che gli fornì il veleno, lo avesse manipolato in modo che lo portasse alla morte e non, come previsto, a un semplice malore, magari in accordo con chi lo avrebbe voluto togliere di mezzo.

Il banchiere ha lasciato la moglie Caterina, due figli e una figlia. Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che fu Andreotti a far pervenire la bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest'ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore.

Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d'appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «...fino alla sentenza del 18 marzo 1986, Sindona aveva sperato che il suo potente protettore Andreotti trovasse la via per salvarlo dall'ergastolo. Nel processo d'appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che finora aveva taciuto».

Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona.

Ancora nel 2010, Giulio Andreotti riportava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona. Il fatto che si lavorasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'era no motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene».

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