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Una mattanza di vittime innocenti che insegnò a pensare alla sicurezza

Una mattanza di vittime innocenti che insegnò a pensare alla sicurezza
La strage dello Statuto fece capire a tutti che non esisteva affatto una vera normativa sulla sicurezza dei locali pubblici e in particolare dei cinema, dei teatri e di conseguenza dei luoghi ove poteva esserci un grande assembramento di persone. E soprattutto che doveva essere radicalmente modificata la cultura della prevenzione che innerva l’assistenza e la protezione degli spettatori. Le inchieste della magistratura sostenute dalle perizie tecniche e dall’esame dei materiali utilizzati per gli arredi, nonché dalla predisposizione delle vie di fuga, portarono ad una normativa a carattere nazionale che rivoluzionò una materia sottovalutata per decenni, nonostante il progredire della tecnologia abitativa. Come dire che la tragedia più drammatica avvenuta a Torino nel dopoguerra portò l’Italia ad essere apripista in materia di sicurezza per l’Europa intera. Per comprendere meglio i locali dello Statuto ove è avvenuta la tragedia pochi mesi prima del febbraio 1983 subirono una ristrutturazione che superò tutte le verifiche imposte dalla normativa dell’epoca in vigore non solo a Torino ma nell’Italia intera. Vi furono addirittura sette ispettori con competenze diverse a firmare il nulla osta alla riapertura del locale dopo i lavori. Insomma lo Statuto avrebbe dovuto essere perfettamente a norma. Anzi, lo era sulla carta, ma nei fatti un luogo costellato di pericoli e di trappole per chi lo frequentava. E ciò lo dimostrarono le perizie successive alla tragedia che dimostrarono che le cause dell’incendio andavano oltre le responsabilità e le negligenze individuali che comunque erano presenti. E venne messo in dubbio l’intero sistema vigente, nonché dei controlli e delle prescrizioni degli enti preposti. Un esempio, forse il più significativo, riguardava le cosiddette porte di sicurezza, quelli che tutti noi abbiamo imparato a riconoscere come “porte con maniglioni anti panico” e che allora erano assai poco utilizzate, per non dire ignorare dai gestori dei locali pubblici. Proprio quelle porte bloccate dall’esterno con vere e proprie serrature che tennero prigionieri gli spettatori che stavano morendo nel cinema. Ma non solo: si accertò che gli impianti elettrici erano vetusti, non sezionati e indipendenti dalle luci di sicurezza che dovevano essere azionate a mano, premendo un interruttore. Il peggio però venne quando si passò ad esaminare le certificazioni degli arredi: i velluti delle poltrone recavano vaghe assicurazioni sulle proprietà ignifughe soprassedendo sulle possibilità di esalazioni pericolose in caso di incendio. Una semplice etichetta recitava un vago “autorizzato dallo Stato” che di fatto non garantiva alcunché. E peggio ancora che quelle fibre una volta incendiate avrebbero sprigionato fumi di acido cianidrico che, se inalato avrebbe potuto causare la morte in poche decine di secondi.
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