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Dopo 40 anni

Omicidio di Bruno Caccia, i due presunti killer sono salvi: «Non c'è abbastanza per condannarli»

Archiviata la posizione di due indagati per il delitto del procuratore di Torino nel 1983

Bruno Caccia procuratore Torino

Bruno Caccia

C’erano almeno cinque persone nel commando che, il 26 giugno 1983, uccise Bruno Caccia. Ma solo due sono state condannate per il delitto del procuratore di Torino, di cui solo una presente all’omicidio. In questi giorni, a distanza di quarant’anni, la posizione di altri due potenziali killer è stata archiviata: «Si ritiene che non si possano fare ulteriori accertamenti investigativi in grado di condurre a una ragionevole prognosi di condanna di Domenico D’Onofrio e Tommaso De Pace per l’omicidio Caccia» scrive Mattia Fiorentini nel decreto che chiude il caso, nonostante l’opposizione dei familiari di Caccia.
Così il giudice per le indagini preliminari di Milano ha accolto la richiesta della Procura lombarda, che ha preso atto di quanto raccolto in ben sei anni di indagini. Troppo poco per chiarire i punti oscuri a quei fatti del 1983 e dare un volto a quei killer rimasti anonimi per quarant’anni.

Di certo il capo della Procura torinese fu assassinato sotto la sua abitazione da un commando. Un delitto che portava la firma della criminalità organizzata. Tanto che, nel 1992, era stato condannato in via definitiva al carcere a vita il boss e mandante Domenico Belfiore. Invece Rocco Schirripa, considerato uno degli esecutori materiali, è stato arrestato solo nel 2015 e per lui l’ergastolo è diventato irrevocabile cinque anni dopo. Nel frattempo, nel 2018, la Procura di Milano ha riaperto le indagini e ha ascoltato proprio Schirripa. Gli indagati erano Francesco D’Onofrio, 68enne di Moncalieri, e l’81enne Tommaso De Pace, altro personaggio legato alla ‘ndrangheta (entrambi detenuti per altri reati).

D’Onofrio è un ex militante dei Colp, formazione eversiva di estrema sinistra nata dalla dissoluzione di Prima Linea. A Torino gli investigatori dell’antimafia erano convinti che fosse anche legato alla criminalità calabrese e che abbia avuto un ruolo nel delitto Caccia. D’Onofrio ha sempre negato ma, ad accusarlo, c’erano le dichiarazioni di un pentito, Domenico Agresta. «Però non risultano riscontri alle sue dichiarazioni» scrive ancora il Gip. E non basta neanche quanto detto da Andrea Mantella, altro collaboratore di giustizia: prima ha negato, poi ha ricordato che D’Onofrio «aveva ammesso di aver ucciso Caccia durante un pranzo in Calabria». Ma lo ha raccontato troppo tardi, quando ormai erano scaduti i termini di due anni anni per la conclusione delle indagini preliminari. Quindi quelle dichiarazioni sono «inutilizzabili».

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