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LA STORIA

La preghiera in moschea finisce a botte. E a tradurre il processo arriva l’imam di Palazzo Nuovo

Sorpresa, in tribunale spunta Brahim Baya, nel mirino per il sermone pro Palestina

La preghiera in moschea finisce a botte. E a tradurre il processo arriva l’imam di Palazzo Nuovo

La premier Giorgia Meloni vorrebbe che i magistrati di Torino lo indagassero per il sermone durante l’occupazione di Palazzo Nuovo. E, in effetti, ieri Brahim Baya è finito in tribunale. Ma solo come interprete improvvisato in un processo.

L’ormai celebre Baya era lì per accompagnare due dei tre protagonisti di un’aggressione avvenuta nella moschea di cui è presidente, la Taiba di via Chivasso (quartiere Aurora). Ed è finito a tradurre per un testimone che parlava solo arabo e non era in grado di spiegare in italiano cosa fosse successo alle 17.30 dello scorso 27 novembre. Anche perché i fatti sono intricati e ancora tutti da chiarire: di certo è finito in carcere un giovane congolese accusato di lesioni personali. Arrivato in Sicilia da minorenne, all’epoca dei fatti viveva nel centro d’accoglienza di via Spalato e aveva solo 17 anni. O almeno così risulta dagli atti, visto che una radiografia del polso gli ha attribuito un’età ossea superiore: per questo viene processato come maggiorenne.

Preghiera alla moschea di via Chivasso (foto d'archivio)

Un’altra delle (poche) certezze di questa vicenda è che il ragazzo è andato nella moschea di via Chivasso: «E’ entrato e mi ha preso a pugni e bastonate con il prolungamento di un appendiabiti in ferro» aveva raccontato nella denuncia il 54enne aggredito, parte offesa della vicenda (e custode del tempio). Che ieri diceva di non ricordare quasi nulla dell’aggressione che lo aveva mandato in ospedale e gli aveva provocato ferite guaribili con 40 giorni di prognosi: «Voglio dimenticare, ho denunciato solo per evitare che succeda ad altri» ha ribadito con il sostegno del testimone dell’aggressione, che ieri ha parlato grazie alla traduzione di Baya. «No, sono stati loro due a prendermi da dietro e picchiarmi - contrattacca l’imputato - Mi dicevano “vattene della nostra moschea”. Forse sono razzisti. Io avevo paura, ho tirato un pugno e ho preso il bastone per difendermi. Ma mi sono fermato quando ho visto il sangue. Scusate».
Eppure il bastone c’era quando i poliziotti sono arrivati in via Chivasso e hanno trovato il giovane congolese ancora dentro la moschea, intento a leggere il Corano: «Mi avevano bloccato dentro» aggiunge il ragazzo, che verrà sottoposto a una perizia psichiatrica su richiesta del suo avvocato, Giovanni Runza.

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