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Medici in fuga dagli ospedali, ma è "boom" di gettonisti: ecco perché

L'ultimo rapporto stilato da Censis e Fnomceo conferma il picco dei contratti a termine e degli abbandoni: solo il Piemonte in dieci anni ha perso il 7% dei professionisti negli ospedali pubblici

Medici in fuga dagli ospedali, ma è "boom" di gettonisti: ecco perché

Contratti precari, stipendi bassi e orari impossibili. Sono le principali ragioni per cui, anno dopo anno, i nostri ospedali continuano a perdere medici e infermieri. Una vera e propria emorragia di "camici bianchi" che viene confermata dall'ultimo rapporto stilato da Censis e Fnomceo.  Un documento che evidenzia l'urgenza di un cambiamento paradigmatico nel Servizio Sanitario Nazionale: la crescente pressione sulla sanità pubblica, dovuta a un aumento della domanda sanitaria e a risorse insufficienti, ha reso evidente la necessità di rimettere al centro il primato della salute e la figura del medico. Il rapporto sottolinea che la deriva aziendalista, che ha posto il controllo dei costi al di sopra della qualità delle cure, ha portato a un progressivo deterioramento del sistema sanitario italiano.

Censis e Fnomceo segnalano una crescita significativa del personale medico a tempo determinato e interinale, a fronte di un modesto incremento del personale stabile. Tra il 2012 e il 2022, il numero di unità annue di lavoro temporanee è aumentato del 75,4%, con un picco del 44,6% nel periodo 2019-2022. Al contrario, il personale medico stabile è aumentato solo del 2,6% nello stesso periodo. Le retribuzioni dei medici italiani nel servizio pubblico sono significativamente inferiori rispetto ai loro colleghi europei. Ad esempio, un medico in Italia guadagna mediamente 109.225 dollari all'anno, contro i 192.264 dollari nei Paesi Bassi e i 188.149 dollari in Germania. Questo gap retributivo, unito a condizioni di lavoro difficili e a un rischio elevato di "burn out", contribuisce alla fuga dei medici verso soluzioni professionali più gratificanti all'estero o nel settore privato.

Dal 1992, con l'introduzione dei decreti legislativi 502/92 e 517/93, l'approccio economicista ha prevalso nel SSN, portando a un aumento dei vincoli economici e burocratici che hanno limitato l'autonomia dei medici. Questo modello ha generato una sanità frammentata e ineguale, dove l'accesso alle cure è spesso determinato dalla capacità economica dei cittadini piuttosto che dalla necessità sanitaria. Da qui la proposta di un ritorno a un paradigma "salutecentrico", in cui la tutela della salute è la priorità assoluta che, però, implicherebbe un investimento significativo in personale medico e sanitario, migliori condizioni di lavoro e retribuzioni adeguate per rendere nuovamente attrattivo il lavoro nel sistema sanitario pubblico, garantendo anche l'autonomia decisionale dei medici nella gestione delle risorse e delle prestazioni sanitarie.

Il rapporto rileva che l'84,5% degli italiani ritiene che l'elevato numero di medici con contratti temporanei indebolisca il SSN. Inoltre, il 90% dei cittadini è convinto che la tecnologia in sanità sia importante, ma non possa sostituire il rapporto umano tra medico e paziente. La maggioranza degli italiani chiede quindi un aumento delle assunzioni di medici e infermieri, e migliori condizioni di lavoro per trattenere i professionisti nel Ssn. Per salvare il Ssn dalla crisi attuale, è indispensabile un cambio di rotta che privilegi il benessere dei pazienti e valorizzi il ruolo dei medici. Solo così si potrà garantire un servizio sanitario efficiente e accessibile a tutti, in linea con le aspettative dei cittadini e le esigenze di una popolazione in continuo invecchiamento.

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