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L'editoriale di Walter Altea
27 Ottobre 2024 - 11:00
In centro trovano rifugio decine di mendicanti
Certi stereotipi, si sa, non rappresentano la peculiarità degli abitanti di una città. Sono dei simpatici modi di prendere in giro, senza cattiveria, i residenti di quel luogo. Dei vicentini si dice che sono “mangiagatti”, anche se gli abitanti della città palladiana amano i loro amici felini e si guardano bene dal mangiarli. Dei genovesi si dice che siano avari, dei milanesi che sono bauscia e così via percorrendo l’intera penisola. Il tratto che distinguerebbe, tradizionalmente, i torinesi è quello di essere falsi e cortesi. Carattere di una cittadinanza un po’ ipocrita, ma educata e gentile, quasi nordica malgrado Torino sia dopo Napoli e Palermo la terza città del meridione per l’origine dei suoi abitanti. Ma nordica lo è per l’architettura del suo centro storico e la sua urbanistica lineare e rigorosa con i portici i grandi corsi e le magnifiche alberate. Certo il Po non ghiaccia più come una volta e le grandi nevicate sono solo un ricordo lontano di noi anziani. Anche il cambiamento climatico ha reso la città e i suoi abitanti ancora più meridionali. Ma non di quella bella e simpatica meridionalità solare ed empatica, ma di quella del sud del mondo, della sporcizia, della maleducazione, dell’arroganza ignorante, della povertà.
Il tessuto economico e sociale cittadino è in via di continuo sfilacciamento. Non sfrecciano più la mattina presto sulle biciclette gli esponenti orgogliosi dell’aristocrazia operaia che fu, verso Lingotto, Mirafiori o Stura. Quel mondo è finito, esaurito, e infine spremuto e poi venduto agli stranieri dai suoi padroni ereditieri che certo torinesi non si sentono, neppure di adozione. Il declino è palpabile non solo per segni e segnali esterni. Torino e la sua cintura, area già a più alta intensità industriale d’Italia, è in disarmo. La politica ha le sue colpe: non ha compreso, molto spesso è stata addirittura acquiescente, il mutamento indotto dal passaggio dal capitalismo industriale a quello finanziario e globalista. La città è cambiata e non si vuole chiamare in causa né l’attuale incolpevole sindaco, né la precedente amministrazione degli inutili e dannosi 5 stelle grillini. Sono cambiati i mestieri, la città si è riempita di bar, ristoranti e pizzerie in attesa di frotte di turisti come fossimo una città d’arte, mentre alle otto di sera è un cimitero, si anima un po’ solo nei week end. Moltissimi giovani laureati scappano all’estero, chi resta si arrangia in tutti i modi col terziario di basso valore aggiunto e con altri mestieri per sopravvivere, non certo con la possibilità di progettare una famiglia e fare figli. Insomma ci si arrangia e anche il piccolo spaccio di droga sembra diventato un mestiere rispettabile perché non si va più in galera e in fondo anche questa è un’occupazione che dà reddito.
Torino è una città piena di mendicanti, di barboni che dormono sotto i portici, i più organizzati anche attendati. I dehor dei bar fanno da ricovero notturno ai senzatetto. Le magnifiche sorti e progressive della Torino del boom del dopoguerra hanno lasciato il passo alle politiche di amministrazioni ormai logorate dal potere da troppo lungo tempo esercitato. Alla vecchia borghesia industriale va sostituendosi la nuova borghesia dei nominati (dalla politica). L’ascensore sociale si è guastato, circolano solo vecchie retoriche, reducismo resistenziale, vecchie idee per una città di anziani. Non si vogliono fare considerazioni moralistiche che lasciamo volentieri a quei magistrati che, solo perché hanno vinto un concorso statale, si sono autoinvestiti dell’alto compito di raddrizzare il legno storto dell’umanità anziché fare il loro mestiere di amministrare equamente la giustizia.
Il cronista si guarda intorno smarrito e vede la sua città sfregiata dagli scarabocchi degli imbrattatori maniaci delle bombolette di vernice spray, le scritte di femminiere (non femministe, quelle sono serie ed hanno sale in zucca) auspicanti i maschi morti e via delirando, i giochi dei bambini nei giardini regolarmente rotti e vandalizzati, ciclisti tracotanti e pericolosi monopattinisti che dispettosamente lasciano il loro mezzo dove possa arrecare più disagio possibile agli altri. E tutto questo condito da una quantità imbarazzante di sporcizia e immondizia diffuse quasi ovunque. Un esempio per tutti è corso Vinzaglio, magnifico corso con quattro filari di maestosi bagolari. All’incrocio con via Cernaia, da dove origina, vi è da settimane, forse da mesi, un vecchio materasso abbandonato. Le panchine appena riverniciate e restaurate hanno doghe spezzate, vandalizzate e sono piene di rifiuti di cibo, plastiche cartacce e bottiglie di birra vuote, malgrado la presenza ogni cinquanta metri del cestino dei rifiuti. Per contorno deiezioni di cani non raccolte da padroni incivili e a volte di umani che stazionano la notte sotto i portici. Lo sporco sembrerebbe la nuova cifra della città.
Si potrebbe dire che i torinesi sono sporchi falsi e cortesi, volendo generalizzare. E’ veramente desolante. Non solo per la sporcizia che gli addetti più o meno regolarmente raccolgono, ma per l’umanità dolente che staziona sotto i portici e soprattutto per la maleducazione e il menefreghismo imperante del decoro e della pulizia del luogo in cui si vive. E’ sparito completamente il senso di comunità e con esso l’orgoglio di vivere in una città più civile, più accogliente, più inclusiva. Si ha l’impressione che circoli sottotraccia una sorta di rancore sordo di tutti contro tutti dove la città è l’arena dello scontro e il giornalone di Elkann, col suo bullismo etico, è aspirante arbitro, pur essendo con tutta evidenza parte in causa in quanto strumento di chi ha contribuito a desertificare il tessuto industriale torinese. Non ci sono ricette miracolose per risollevare questa città, ma non si vedono neppure seri progetti della politica capaci di immaginare un futuro per Torino diverso da declino e decrescita. Sembrerà banale o utopistico ma forse occorrerà ripartire dal cuore. Abbiamo tutti bisogno di una nuova educazione sentimentale alla nostra città. Perché dall’amore scaturiscono sempre le imprese più belle.
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