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Il caso

Pattinatrici morte sulla A21, parla la mamma condannata: «Ecco la mia verità sull'incidente»

Monica Lorenzatti era accusata dell'omicidio colposo della figlia, della nipote e della sorella gemella

Pattinatrici morte sulla A21, parla la mamma condannata: «Ecco la mia verità sull'incidente»

«La galera? Non mi preoccupa, io vivo già la mia prigione dal 27 ottobre 2017. Ma andrò avanti, voglio avere giustizia».

Monica Lorenzatti parla tutto d’un fiato, senza esitazioni. Perché sono più di sette anni che lotta e non ha intenzione di smettere. Neanche ora che i giudici del Tribunale di Trento l’hanno condannata a 2 anni di carcere per l’omicidio colposo di sua figlia Gioia Virginia Casciani e della nipote Ginevra Barra Bajetto, residenti a Villarbasse e Condove. Le due promesse del pattinaggio artistico, 9 e 17 anni, avevano perso la vita in ospedale quel 27 ottobre 2017, di ritorno da una gara vinta dalla bambina a Merano. E dopo venti mesi di ricovero era morta anche Graziella, sorella gemella di Monica: erano tutte a bordo della Ford Focus guidata da Lorenzatti, che si è schiantata contro il camion che la precedeva lungo l’autostrada A22 (nella zona di Trento).

L’unica a riportare ferite lievi e a salvarsi da quell’impatto devastante è stata proprio la conducente, prima indagata e ora condannata. Con lei è stato condannato anche l’autista del tir che precedeva la Focus station wagon, il modenese Alberto Marchetti: «Questa è un piccola vittoria - sottolinea ora Lorenzatti, 50 anni - Inizialmente il camionista è stato scagionato dalla Procura e anche alla penultima udienza pensavo che il pubblico ministero chiedesse la condanna solo per me». In sostanza, secondo i giudici, le colpe sono da attribuire a entrambi: «Ma io ho dimostrato che non ho fatto nulla. Ora, insieme ai miei avvocati Claudio Tasin e Karol Pescosta, aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza ma so che già farò ricorso in appello per far riconoscere la mia innocenza: so che non può riportarmi mia figlia ma tanto vivo già da 7 anni in una prigione di dolore. Non ho paura della pena, voglio solo la verità per mia figlia, mia nipote e mia sorella».

La torinese, infatti, non riconosce quanto ricostruito durante l’inchiesta portata avanti dalla Procura di Trento: «Ho indagato per conto mio, anche perché hanno sbagliato sin dall’inizio: non hanno neanche sequestrato il camion. Ho dovuto recuperare le foto e poi mandare la “scatola nera” della macchina a Budapest, visto che lì c’è la sede principale della Bosch». E cos’ha ricostruito? «L’accusa sostiene che io andassi a 140 chilometri orari e che sia stata abbagliata dal sole, invece il camionista ha decelerato senza che si attivassero le luci posteriori. E io andavo a 78 all’ora: quello che ci è successo non era prevedibile, lui è passato da 90 chilometri a 7. Era praticamente fermo».

La signora continua a parlare praticamente senza sosta. E allo stesso modo continuare a lottare per far valere la sua verità, in tribunale e fuori. Intanto resiste grazie al lavoro, visto che gestisce un’azienda di imballaggi in legno e nel 2018 ha rilevato il marchio di una fabbrica che produce abbigliamento per pattinaggio su ghiaccio. E porta avanti l’associazione “Gioia l’angelo del ghiaccio”, dedicata alla sua bambina: «L’ho fondata nel 2018 per aiutare giovani talenti che non hanno la possibilità di allenarsi».

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