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Cronaca
23 Aprile 2025 - 13:08
Lo spettacolo di tanti leader mondiali pronti a sfilare ai suoi funerali stride con il suo papato. Capi di Stato e di governo che spesso si sono rivelati distanti se non apertamente contrari ai suoi appelli alla pace, alla giustizia sociale, alla sobrietà. La loro presenza rischia di trasformarsi in una passerella in un gesto di diplomazia fredda più che in un tributo autentico.
Papa Francesco ha sempre dato l’impressione di abitare simbolicamente fuori dal Vaticano più che nelle stanze dei palazzi. Lo si immaginava sul sagrato, tra le colonne del colonnato di Bernini che abbracciano la piazza non come un sovrano ma come un fratello, un vicino di casa pronto ad ascoltare. Un pastore capace di inchinarsi davanti ai dolori del mondo con la consapevolezza angosciante di non poter fare abbastanza. Era lo specchio di un’esigenza più profonda, quella di essere presente là dove i bisogni si manifestano senza filtro.
Definirlo un “uomo politico” significa fraintendere il nucleo della sua azione. Bergoglio non ha mai cercato consenso: al centro delle sue prese di posizione c’era la coscienza morale, non la strategia. A chi oggi dice che “è l’unico che avrei votato”, va ricordato che la sua autorevolezza nasceva proprio dalla libertà di non dover piacere a nessuno. Eppure, Francesco probabilmente avrebbe voluto che anche loro fossero presenti. Perché credeva nel dialogo come unica strada verso la pace anche con chi non lo ascoltava. Perché non smetteva di tendere la mano neppure a chi impugnava le armi. La sua era una visione evangelica non diplomatica: l’altro non va escluso, va convertito al bene attraverso l’incontro.
Il ricordo più intimo, forse il più umano, è quello raccolto da un medico del Gemelli. Durante l’ultima crisi respiratoria, Francesco avrebbe sussurrato: “È brutto… provate tutto”. Nessuna posa da santo, nessuna teatralità. Solo un uomo fragile come tutti noi che chiedeva aiuto. E in quel momento ha insegnato cosa significa davvero essere pastore.
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