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Il caso

Uscire per lavorare, uccidere e morire: cosa ci dice il caso De Maria

Dopo l’evasione e il suicidio del detenuto del carcere di Bollate, si discute sull'efficacia e sui criteri dei benefici penitenziari

Uscire per lavorare, uccidere e morire: cosa ci dice il caso De Maria

Il caso di Emanuele De Maria, il detenuto evaso dal carcere di Bollate e morto dopo essersi gettato dalla terrazza del Duomo di Milano, ha riaperto un acceso dibattito sull’efficacia e sui criteri con cui vengono concessi i permessi per il lavoro esterno ai detenuti. De Maria, 35enne originario di Napoli, stava beneficiando di uno di questi permessi quando è fuggito. Secondo la polizia, nei giorni successivi avrebbe commesso due gravi reati: l’accoltellamento di un collega e il femminicidio di Chamila Wijesuriyauna, una donna con cui aveva avuto una relazione, prima di togliersi la vita.

Il carcere di Bollate è considerato da molti un modello per l’elevato numero di permessi concessi ai detenuti e per la visione rieducativa del percorso detentivo. Su oltre 1.300 detenuti, circa 700 lavorano, e 200 lo fanno all’esterno del carcere. De Maria era tra questi: lavorava da quasi due anni come receptionist all’hotel Berna, vicino alla stazione Centrale di Milano, dove aveva conosciuto la collega che ora è sospettato di aver ucciso.

La notizia ha spinto il ministero della Giustizia a richiedere tutta la documentazione sul suo caso, valutando l'apertura di un'ispezione. De Maria era detenuto per un femminicidio compiuto nel 2016, e la sua posizione rientra tra quelle che la legge definisce particolarmente delicate. I detenuti per reati gravi, infatti, possono accedere al lavoro esterno solo in precise condizioni: dopo aver scontato almeno un terzo della pena, se non condannati a pene lunghe, oppure se collaborano con la giustizia.

I permessi per il lavoro esterno, disciplinati dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario del 1975 e dall’articolo 48 del DPR 230/2000, non sono misure alternative alla detenzione, ma benefici pensati per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Il percorso per ottenere il permesso coinvolge una commissione interna che valuta il comportamento e l’idoneità del detenuto, la direzione del carcere, e infine un magistrato di sorveglianza che decide in base a criteri legali e valutazioni di pericolosità sociale. Tuttavia, i dati parlano chiaro: il tasso di recidiva tra i detenuti in generale è del 70%, mentre tra i circa 20mila che hanno un contratto di lavoro è solo del 2% (dato del CNEL, giugno 2024).

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