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Ambiente
18 Giugno 2025 - 19:10
Per anni il Veneto è stato l’epicentro di una delle peggiori emergenze ambientali d’Europa, causata dalla massiccia presenza di PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) nelle falde acquifere, nei terreni e persino nel corpo umano. Questi composti chimici di origine industriale, soprannominati “forever chemicals” per la loro eccezionale stabilità, sono tristemente noti per la loro tossicità e persistenza: basti pensare che il PFOA, una delle molecole più diffuse, impiega oltre 90 anni per dimezzarsi nel suolo.
Tuttavia, un recente studio scientifico potrebbe segnare una svolta. Un gruppo di ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, guidato dal professor Edoardo Puglisi, ha individuato ceppi batterici autoctoni del suolo veneto in grado di degradare i PFAS. Una scoperta che apre scenari concreti per una bonifica biologica e sostenibile.
I PFAS comprendono più di 4.700 molecole create artificialmente, tutte caratterizzate da un legame carbonio-fluoro (C-F) straordinariamente resistente, che le rende impermeabili a calore, acqua e grassi. Per questo motivo sono largamente impiegate in oggetti di uso quotidiano come tegami antiaderenti, giacche impermeabili e schiume antincendio.
Il problema? Queste sostanze si accumulano nell’ambiente e negli organismi viventi, senza degradarsi. Attraverso l’acqua e il cibo contaminati, entrano nel corpo umano, dove possono permanere per anni e causare danni seri a fegato, reni e sistema endocrino. In Veneto, dove la contaminazione è stata tra le più estese a livello mondiale, si stima siano attribuibili ai PFAS migliaia di morti premature in pochi decenni.
Proprio nei suoli più compromessi, in particolare nelle province di Vicenza e Padova, i ricercatori hanno isolato circa 20 ceppi batterici in grado di utilizzare i PFAS come unica fonte di carbonio. Tra questi figurano generi come Micrococcus, Rhodanobacter, Pseudoxanthomonas e Achromobacter, tutti considerati non patogeni per l’uomo e facilmente coltivabili.
Questi microrganismi sono capaci di rompere il legame C-F, vero tallone d’Achille dei PFAS, avviando un processo di degradazione che in laboratorio ha raggiunto efficienze superiori al 30%. Alcuni batteri riescono anche a metabolizzare i sottoprodotti della decomposizione, contribuendo a una bonifica più completa e duratura.
La scoperta apre le porte alla biorimediazione, una tecnica che utilizza organismi viventi per ripulire terreni e acque contaminate. A differenza dei metodi tradizionali – come filtri a carbone attivo, incenerimento o osmosi inversa – che si limitano a rimuovere i PFAS senza eliminarli, questa strategia potrebbe rappresentare una soluzione definitiva e meno impattante per l’ambiente.
Le tecnologie attualmente in uso sono costose, energivore e non risolvono alla radice il problema dello smaltimento dei rifiuti tossici. Secondo alcune stime, la decontaminazione nell’Unione Europea potrebbe costare fino a 2.000 miliardi di euro nei prossimi vent’anni. Integrare questi batteri nelle strategie di bonifica significherebbe ridurre drasticamente i costi e l’impronta ambientale.
Quello che sembrava un problema irrisolvibile potrebbe ora trovare una risposta nella natura stessa. La possibilità di impiegare direttamente questi batteri nei siti inquinati rappresenta un cambio di paradigma cruciale: non più contenere o trasferire il problema, ma eliminarlo alla radice. Un passo avanti decisivo per proteggere la salute pubblica e restituire al territorio un futuro libero dai “veleni eterni”.
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