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Il caso
06 Luglio 2025 - 20:30
Foto di repertorio
Otto uomini condannati per crimini violenti negli Stati Uniti sono stati deportati in Sudan del Sud, nonostante solo uno di loro sia originario del Paese africano. Gli altri provengono da Cuba, Laos, Messico, Myanmar e Vietnam. La controversa espulsione è avvenuta in seguito a una sentenza della Corte Suprema che ha rafforzato i poteri dell’amministrazione Trump in materia di immigrazione. L'operazione è stata possibile dopo che, la scorsa settimana, la Corte Suprema ha stabilito che i giudici federali non potranno più emettere le cosiddette nationwide injunctions – ingiunzioni valide su tutto il territorio nazionale – per bloccare misure dell’esecutivo federale. Questo ha di fatto rimosso l’ostacolo legale che aveva temporaneamente fermato la deportazione degli otto uomini.
A maggio, infatti, l’amministrazione Trump aveva già avviato i preparativi per l'espulsione, trasferendo i detenuti in una base militare statunitense a Gibuti. Lì, l'operazione fu interrotta da un’ingiunzione di un giudice federale, che aveva giudicato il Sudan del Sud troppo pericoloso e instabile per accettare deportazioni forzate. Tuttavia, con la nuova decisione della Corte Suprema, venerdì scorso gli uomini sono stati trasferiti a Juba, la capitale del Sudan del Sud, sollevando interrogativi su una possibile nuova prassi che permetterebbe al governo americano di deportare stranieri anche in paesi con cui non hanno alcun legame diretto, e che potrebbero non essere sicuri.
Organizzazioni per i diritti umani e legali hanno duramente criticato la decisione, sottolineando che il Sudan del Sud – teatro di una guerra civile durata anni e ancora oggi segnato da instabilità politica e violenze – non può essere considerato un luogo sicuro per il reinsediamento forzato. Inoltre, secondo i legali delle persone coinvolte, l'espulsione verso un Paese straniero privo di legami personali o nazionali con gli individui coinvolti potrebbe costituire una violazione del diritto internazionale.
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