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03 Agosto 2025 - 15:40
Dalla scorsa settimana, negli Stati Uniti è esplosa una vivace polemica attorno alla nuova campagna pubblicitaria di American Eagle, celebre marchio di abbigliamento, che vede protagonista l’attrice Sydney Sweeney. Nota al grande pubblico per il suo ruolo nella serie Euphoria e diventata ormai un’icona sexy, Sweeney è al centro delle discussioni per via dello slogan scelto dall’azienda: «Sydney Sweeney has great jeans» – una frase che, in inglese, gioca volutamente sull’assonanza tra jeans (pantaloni) e genes (geni).
Il doppio senso ha fatto storcere il naso a molti. Alcuni critici hanno letto nello slogan un riferimento, voluto o meno, a un’estetica razziale che ricorda da vicino i concetti di “superiorità genetica”, una teoria razzista promossa dal nazismo e basata sull’idea che le persone bianche, bionde e con gli occhi azzurri siano intrinsecamente superiori. Una visione che, anche solo evocata, ha acceso i riflettori sulla scelta comunicativa dell’azienda.
Dall’altra parte, la destra americana ha prontamente difeso la campagna, trasformandola in un nuovo vessillo nella battaglia contro il politicamente corretto e l’“ideologia woke”. A rafforzare questa narrazione sono intervenuti elementi come l’immagine molto tradizionale di Sweeney e le sue radici culturali: l’attrice è cresciuta a Spokane, nello stato di Washington, una cittadina situata ai margini del cosiddetto Mountain West, area degli Stati Uniti spesso associata a valori conservatori.
In molti osservano come questa vicenda si inserisca in una tendenza più ampia: con il ritorno sulla scena politica di Donald Trump, anche il mondo della pubblicità sembra riscoprire linguaggi più tradizionali e conservatori, dopo anni in cui le aziende avevano sposato cause progressiste e narrative inclusive.
Com’era prevedibile, il dibattito si è rapidamente infiammato sui social network, dove la logica dei contenuti virali ha contribuito a polarizzare ulteriormente le opinioni. Il giornalista dell’Atlantic, Charlie Warzel, ha sintetizzato perfettamente il meccanismo: «I progressisti esprimono la loro indignazione autentica, i conservatori reagiscono etichettandola e usandola per descrivere i loro oppositori come esagerati e disconnessi dalla realtà. Poi arrivano i content creator più furbi, che sfruttano la polemica cavalcando gli algoritmi di TikTok, X e delle altre piattaforme».
Una semplice pubblicità, insomma, è diventata l’ennesimo terreno di scontro in una battaglia culturale che, negli Stati Uniti, sembra non conoscere tregua.
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