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Il caso
21 Agosto 2025 - 11:31
Diciassette escoriazioni sul corpo. Più di dieci ore in una camera di sicurezza senza ricevere cure. Una sola visita medica, tardiva e superficiale. E ventidue minuti tra il momento del suicidio e l’intervento dei soccorsi. Sono alcuni degli elementi contenuti nell’esposto presentato alla magistratura da Zahira Badoui, sorella di Hamid Badoui, il 41enne morto suicida nel carcere torinese Lorusso e Cutugno lo scorso maggio. La famiglia chiede che si faccia luce su una possibile catena di omissioni e condotte negligenti da parte di polizia, personale penitenziario e medico, che – secondo quanto denunciato – potrebbero aver avuto un ruolo causale nella morte dell’uomo.
Nell’esposto, redatto dall’avvocato Luca Motta, si invita la Procura a valutare non solo l’ipotesi di istigazione al suicidio, ma anche quella di omicidio colposo. Hamid Badoui, cittadino marocchino residente a Torino da 15 anni, era tornato da poco in Italia dopo una breve e difficile permanenza nel CPR di Gijader, in Albania. “Un mese e tre giorni infernali”, li aveva definiti lui stesso, come riportato dal legale. Il 17 maggio scorso, a Torino, è stato arrestato in corso Giulio Cesare dopo aver lui stesso richiesto l’intervento della polizia per una presunta truffa ai suoi danni. L’arresto – definito facoltativo nel testo della denuncia – si è concluso con una colluttazione: Badoui, in stato di forte agitazione dovuto anche all’uso di sostanze stupefacenti, avrebbe opposto resistenza agli agenti, che hanno riportato lievi ferite e si sono recati in ospedale. Ma, si legge nell’esposto, Hamid è stato invece lasciato solo nella camera di sicurezza per oltre dieci ore, senza ricevere alcuna assistenza medica. Secondo la ricostruzione, l’uomo è stato condotto in carcere solo alle 3:43 del mattino, e visitato dal medico alle 4:20, quindi oltre 14 ore dopo l’arresto. Nessuna valutazione psichiatrica, nonostante la sua evidente fragilità mentale: il “rischio suicidario” sarebbe stato frettolosamente definito “basso”. Alle 6:07 del 18 maggio, poche ore dopo l’ingresso in carcere, Hamid si è tolto la vita nella cella 214 utilizzando un laccio della scarpa. I soccorsi sono intervenuti solo dopo 22 minuti, quando ormai era troppo tardi. L’autopsia, affidata al medico legale Camilla Bonci, ha confermato che la causa del decesso è stata l’asfissia da impiccagione. Le altre lesioni – 17 tra escoriazioni ed ecchimosi – sono state giudicate superficiali, ma non attribuibili a eventi post-mortem. Zahira Badoui sottolinea come nessuno, tra l’arresto e il decesso, si sia preoccupato dello stato psicofisico del fratello. L’uomo sarebbe passato in poche ore da “vittima a indagato”, senza alcuna reale valutazione della sua condizione. “Era provato per la detenzione in Albania – afferma la famiglia – e aveva bisogno di aiuto, non del carcere”. Nella denuncia, si ipotizza che condotte omissive, superficiali o negligenti abbiano potuto contribuire alla morte di Badoui. In particolare, vengono citati gli agenti di polizia intervenuti, per la gestione dell’arresto e il mancato accompagnamento in ospedale. il medico di guardia, per l’assenza di una diagnosi psichiatrica e il personale penitenziario, per non aver attivato un adeguato protocollo di sorveglianza. Secondo l’avvocato Motta, queste omissioni potrebbero configurare un concorso colposo nella morte del detenuto, alla luce delle condizioni psichiche di Hamid e dei segnali di disagio ignorati. Dal canto loro, gli agenti coinvolti sostengono di aver agito correttamente, contenendo un soggetto agitato e violento senza uso eccessivo della forza. Due passanti, che avrebbero ostacolato l’intervento di polizia, sono stati denunciati.
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