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L'editoriale

Il 7 ottobre : L’Europa che dimentica, l’Italia che tace

Corteo romano inneggia al "7 ottobre" come resistenza: l'antisemitismo travestito da attivismo, l'oltraggio alla memoria e i silenzi compiacenti

Il corteo Pro Pal, le cariche della polizia e il significato autentico del pacifismo

Roma, venerdì sera. Nella città che ospita le vestigia di duemila anni di civiltà, è sfilato un corteo che con la civiltà non ha nulla a che fare. In testa, uno striscione enorme: «7 ottobre, giorno della resistenza palestinese». Un pugno nello stomaco. Una bestemmia civile. In quella frase, il massacro, la carneficina, la barbarie di Hamas del 7 ottobre 2023 — oltre mille civili israeliani torturati, stuprati, bruciati vivi, decapitati — sono stati ribattezzati come “resistenza”. Una parola piegata a legittimare chi ha fatto di neonati e vecchi il bersaglio della propria follia. Là dove sarebbe dovuto esserci il silenzio, la memoria, la pietà, si è alzato il coro dell’odio. Nel corteo, accanto a bandiere palestinesi e slogan di pace, si sono levati cori che non parlavano di pace ma di sterminio: «Viva Hamas», «Morte al sionismo», «Dal fiume al mare». Canti, urla, invocazioni che in realtà non chiedono libertà, ma cancellazione. Non giustizia, ma vendetta. Non il diritto dei palestinesi, ma la fine degli ebrei. E così Roma si è ritrovata a fare da sfondo a un corteo in cui l’antisemitismo si mascherava da attivismo. Sta tirando una brutta aria, diciamolo senza giri di parole. Un’aria che infetta le scuole, le università, certi media compiacenti, che ripetono slogan senza conoscerne il veleno. Un’aria che trasforma il “no alla guerra” in “no agli ebrei”.

Perché questo è il punto: l’odio non è più contro Israele, è contro gli ebrei. L’antisemitismo ritorna nel linguaggio, nei gesti, nelle omissioni. E a farne le spese, ancora una volta, è la memoria. Emblematico l’episodio che ha coinvolto Francesca Albanese, relatrice ONU per i Territori Palestinesi. Ha ammonito il sindaco di Reggio Emilia perché aveva osato parlare degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Poi, in una trasmissione su La7, ha abbandonato lo studio quando si è citato l’esempio di Liliana Segre — una donna che ha visto l’Olocausto con gli occhi di una bambina deportata. Un gesto rivelatore: la memoria della Shoah diventa fastidiosa, scomoda, perfino provocatoria. È questo il livello a cui siamo arrivati. Le comunità ebraiche italiane hanno espresso indignazione e paura. A Milano, il presidente Walker Meghnagi ha parlato di «una deriva pericolosa, in cui chi strizza l’occhio all’antisemitismo è complice». A Roma, la Comunità ebraica ha chiesto rispetto e chiarezza: «Chi confonde antisionismo e odio anti-ebraico gioca con il fuoco». Eppure le voci della ragione restano isolate. Molti, troppi, tacciono. Altri, peggio, minimizzano. Come se il 7 ottobre fosse un “evento bellico” tra tanti. No: il 7 ottobre è stato una mattanza di civili, un pogrom nel senso più letterale del termine. Una caccia all’ebreo nel XXI secolo. Eppure, in questa data che avrebbe dovuto essere consacrata al silenzio e alla meditazione, si è scelto di marciare contro Israele, e di fatto contro gli ebrei. Non una parola sulle vittime di quel giorno: i bambini bruciati nei kibbutz, le famiglie massacrate, gli ostaggi portati a Gaza e mai tornati. Non un pensiero per le donne stuprate, per i corpi mutilati, per le case trasformate in tombe. Solo la parola “resistenza”. Come se la morte fosse un diritto, e non un crimine. 

Sì, Israele ha reagito con rabbia, con forza, con fuoco. Ma chi non avrebbe reagito dopo aver visto l’inferno? Ogni guerra è orrore, ma non tutte le guerre sono uguali. E ridurre la risposta israeliana a un semplice “atto di vendetta” significa cancellare la causa prima, il peccato originale: il 7 ottobre. Oggi sul tavolo c’è solo un piano di pace realistico, quello elaborato dalla amministrazione Trump, sostenuto da quasi tutti i Paesi arabi, dall’Autorità Palestinese, da Stati Uniti ed Europa — tutti, tranne l’Iran. Solo Hamas continua a temporeggiare, a parlare di “negoziati” mentre tiene in ostaggio civili, soldati, bambini. Chi non condanna Hamas, chi non chiede la liberazione immediata degli ostaggi, non è un pacifista. È un complice. Il 7 ottobre dovrebbe essere un giorno di raccoglimento, di riflessione sull’abisso del male che l’uomo può infliggere all’uomo. Invece è diventato il giorno della vergogna di chi, in Occidente, preferisce confondere carnefici e vittime pur di non ammettere che l’odio antiebraico è tornato a bussare. E forse non se n’era mai andato. Chi sta con Israele oggi non difende solo uno Stato. Difende la memoria, la verità, la civiltà. Difende l’idea stessa di Occidente. E chi non lo fa, chi gioca all’equidistanza, chi tace di fronte allo striscione della vergogna, ha già scelto da che parte stare. Non serve urlarlo. Basta guardarlo negli occhi. Perché ogni volta che un popolo dimentica, la storia si prepara a ripetersi. E questa volta, non avremo scuse.

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