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Il caso
29 Ottobre 2025 - 18:30
La crisi degli affitti
C’è un momento in cui la politica mostra il suo vero volto: non quello nobile, né quello visionario, ma quello meschino. È il momento in cui una misura giusta nei principi viene piegata, distorta, svuotata di senso da chi la dovrebbe applicare. È la miseria della politica, quella che trasforma un’idea di equità in un pretesto per fare cassa. L’aumento della cedolare secca dal 21 al 25 per cento, per gli affitti brevi, è esattamente questo: una buona idea tradita, rovesciata su chi meno ne ha colpa.
Premesso che le zone centrali di quasi tutte le città si vanno desertificando anche per via degli affitti brevi, che generano gentrificazione e overtourism con la conseguenza che non si trovano più appartamenti in affitto se non nelle periferie, la questione andava affrontata in tutt’altro modo. La cedolare secca era nata con uno scopo preciso: incentivare i proprietari a locare i propri immobili con contratti regolari, non brevi, favorendo così la stabilità abitativa e il contrasto al nero. Invece, negli anni, è stata snaturata. Per un problema di equità vera, dovrebbero essere gli affitti brevi a uscire dal campo di applicazione della cedolare secca, rientrando nel regime ordinario di tassazione. Perché è lì, nel business delle locazioni mordi e fuggi, che si concentrano gli extraprofitti e le distorsioni del mercato. Gli affitti brevi non sono un fenomeno neutro: comportano conseguenze sociali profonde, spostamenti di intere fasce sociali che devono ripiegare sulle periferie o nell’hinterland, alterando la composizione demografica e culturale delle città.
Le ricadute non sono solo economiche ma sociologiche: i centri storici diventano vetrine senz’anima, spazi per turisti e investitori, mentre il tessuto comunitario si sfilaccia. L’equilibrio urbano si rompe. A pagare il prezzo più alto è il ceto medio, il cuscinetto sociale che regge da decenni il Paese e che oggi si ritrova stritolato tra il caro affitti, la pressione fiscale e la perdita di centralità nella vita cittadina. Un ceto medio espulso dai centri e confinato nei margini, mentre le piattaforme digitali continuano a moltiplicare rendite e disuguaglianze. Eppure, quando il governo prova finalmente a intervenire, cercando di usare lo strumento fiscale per contrastare almeno in parte questa deriva, la reazione è immediata. Non viene dall’opposizione — troppo flebile e scomposta per incidere ed essere credibile — ma dagli stessi alleati di governo. È la fronda interna al governo di Giorgia Meloni, quella che si erge a difesa della rendita, di chi vuole continuare a estrarre valore privato da beni collettivi, privatizzando i profitti e socializzando i danni.
È un copione che conosciamo bene: si parla di libertà del mercato, ma si difendono posizioni di privilegio. Si parla di tutela dei proprietari, ma si dimentica chi in quelle case non può più permettersi di vivere. Si invoca il voto del piccolo risparmiatore, ma si difendono i grandi proprietari e gli intermediari digitali che gonfiano gli affitti e svuotano le città. È una politica che non ha il coraggio di distinguere, che non sa più dire dove finisce il diritto e dove comincia l’abuso. E così, invece di governare le trasformazioni urbane, le subisce. Invece di proteggere i cittadini, protegge gli interessi di pochi. Si fa scudo del consenso e rinuncia alla visione. Si dimentica che la casa non è solo un bene economico, ma un presidio di comunità, una garanzia di equilibrio sociale.
La miseria della politica è tutta qui: nel correre dietro ai proprietari di case per qualche voto in più, come se le città fossero solo mappe elettorali da presidiare. Paradossalmente, una rincorsa inutile, perché i centri storici – quelli abitati ormai quasi esclusivamente da elettori di sinistra – non restituiscono nemmeno il dividendo politico sperato. Si perde la coerenza, si perde il senso, e si perde pure il consenso. Alla fine resta solo la fotografia di un Paese che non ha più il coraggio di scegliere: che tassa chi affitta per vivere, ma non chi vive di affitti; che parla di giustizia mentre difende le rendite; che confonde la casa con un bancomat. Questa è la vera miseria della politica: quella che, per paura di scontentare qualche presunto elettore, finisce per scontentare tutti, anche quelli che convintamente guardano con speranza e favore al governo Meloni.
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