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07 Novembre 2025 - 07:20
La Corte d’assise d’appello di Milano ha ridotto a 24 anni di reclusione la pena per Alessia Pifferi, accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di appena 18 mesi nel luglio del 2022. In primo grado la donna era stata condannata all’ergastolo, ma i giudici d’appello hanno deciso di escludere l’aggravante dei futili motivi, mantenendo solo quella del vincolo di parentela e riconoscendo attenuanti generiche.
Nel corso del processo d’appello, è stata disposta una nuova perizia psichiatrica, che – come già avvenuto nel primo grado – ha stabilito che la donna era capace di intendere e di volere al momento dei fatti. La procuratrice generale Lucilla Tontodonati aveva chiesto di confermare l’ergastolo, mentre la difesa, rappresentata dall’avvocata Alessia Pontenani, aveva invocato il vizio parziale di mente o almeno una riduzione della gravità del reato.
Alessia Pifferi viveva nel quartiere di Ponte Lambro, nella zona sudorientale di Milano, vicino all’aeroporto di Linate. Il 14 luglio 2022, intorno alle 18, lasciò la propria abitazione per raggiungere il compagno a Leffe, in Val Seriana (provincia di Bergamo), abbandonando la figlia da sola in casa. All’uomo disse che la bambina era al mare con la sorella. La donna tornò a Milano solo dopo sei giorni, il 20 luglio, quando trovò la figlia senza vita.
Durante il primo processo, gran parte dell’attenzione si era concentrata sulle capacità cognitive di Pifferi. Due psicologhe del carcere di San Vittore, dove era detenuta, avevano sostenuto che la donna avesse un quoziente intellettivo molto basso, tale da non comprendere appieno le conseguenze delle proprie azioni. Il pubblico ministero Francesco De Tommasi aveva però contestato quelle conclusioni e aveva persino avviato un’indagine per falso ideologico contro le due professioniste.
La difesa ha sempre sostenuto che Pifferi soffrisse di un ritardo cognitivo significativo e che il suo comportamento dovesse essere qualificato come abbandono di minore, non come omicidio volontario aggravato. La Corte d’appello, pur confermando la responsabilità della donna, ha ridotto la pena a 24 anni di carcere, riconoscendole parzialmente le attenuanti richieste.
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