Natalina è rimasta incatenata per tutto il giorno davanti al tribunale dei minori. Accanto a lei un lenzuolo bianco, con fogli attaccati uno a uno: sono gli ultimi anni della sua vita, quelli in cui non ha potuto vedere suo figlio. Quasi sei anni senza un abbraccio, senza un pomeriggio insieme, senza che quel ragazzo – oggi adolescente – la guardi negli occhi. L’ultimo bacio glielo ha dato in una comunità, in un’altra città. Per capire la sua storia bisogna tornare indietro. È il 19 febbraio 2012 quando Natalina mette al mondo un bambino con un parto sereno e naturale. È una ragazza madre, ma non è sola: a casa, quando escono dall’ospedale Sant’Anna, ci sono la nonna, il nonno, gli zii. I primi due anni scorrono come in qualunque famiglia. Lei lavora al Regina Margherita, dove lavora ancora oggi. Il primo scossone arriva quando il bambino ha due anni e mezzo: morde una compagna all’asilo. Scatta una segnalazione, e i servizi sociali cominciano a seguire il nucleo. Il piccolo cresce bene, fisicamente sta bene, parla poco, è molto legato alla madre. Le insegnanti delle elementari chiedono una maestra di sostegno, che viene assegnata. Ma all’inizio della seconda elementare iniziano i problemi. Natalina va spesso in conflitto con le maestre, che definiscono il bambino “iperattivo, oppositivo”. A ottobre 2019 la scuola annuncia uno sciopero. Natalina dice che manderà comunque il figlio a scuola, le maestre insistono che deve tenerlo a casa. Lei rifiuta. Ha un carattere forte, voce ferma, occhi chiari, capelli corti. Racconta: «Mi dicevano che non ci sarebbero stati nemmeno gli insegnanti di sostegno. Fatto sta che lo mando a scuola comunque». Dopo poche ore arriva la telefonata: c’è un’ambulanza davanti all’istituto. La nonna si precipita, Natalina poco dopo. «Mio figlio in quella circostanza afferma di non voler stare a scuola perché è vittima di bullismo». In due giorni la vicenda circola in tutta la scuola e in città. Le maestre le dicono che il bambino è pericoloso per sé e per gli altri, e che non deve più mandarlo. Lei lo tiene a casa, perdendo diversi giorni di lezione. A dicembre arriva un incontro con le assistenti sociali: suggeriscono che il piccolo venga allontanato “per un po’”. Natalina si oppone. «Non c’erano maltrattamenti, né problemi economici. Perché avrebbero dovuto portarmelo via?». Arrivano le vacanze di Natale. Mamma e figlio partono per Roma, si godono le luci. «È stato magico», ricorda. Ma il bambino le confida un sogno: i carabinieri che lo portano via. Non vuole tornare a casa. Il 13 gennaio 2020 i carabinieri bussano alla porta. Le chiedono di presentarsi l’indomani in caserma con sua madre e il bambino. Natalina teme il peggio, ma non immagina quanto. «Non avevo nemmeno preparato un borsone. Perché avrebbero dovuto portarmelo via?». In caserma ci sono cinque operatori dei servizi sociali. Offrono caramelle al bambino, lui le rifiuta e le getta. Da lì, il viaggio verso la comunità in cui vive ancora oggi. «Non c’era un decreto di un giudice, non mi veniva sospesa la patria potestà». Natalina si oppone subito, tra avvocati, pm, servizi sociali, giudici. Oggi li ha denunciati tutti. Il primo mese può vedere il figlio un’ora alla settimana in un luogo neutro, alla presenza di una psicologa. L’ultimo incontro: tre ore fuori dalla struttura. Poi arriva la pandemia, e le dicono che non può andare. Restano due telefonate da quindici minuti alla settimana. Poi nemmeno quelle. Adesso, al posto di un album di fotografie, Natalina conserva una pila di fogli timbrati da procura e tribunale: sono i suoi ultimi sei anni da madre. «Me lo hanno portato via senza un decreto. Senza un ordine di un giudice. Senza la possibilità di ribattere». Il freddo non la spaventa: vuole trascorrere tutti i prossimi giorni incatenata davanti al tribunale dei minori. «Il 19 novembre 2020 mi viene revocata la patria potestà. Mio figlio stava in comunità da gennaio. Per nove mesi è stato trattenuto illegalmente all’interno di quella struttura». Anni di battaglie, di ricorsi, di denunce. Qualche tempo fa, in segno di protesta, aveva imbrattato i muri di Settimo con la vernice. «Quello era il titolo dei giornali. Ma dietro c’è una storia: la mia protesta per riabbracciare mio figlio. Perché torni a casa dalla sua famiglia. E non ho intenzione di arrendermi. Fino all’ultimo respiro che faccio».
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