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ECONOMIA

Salari giù del 7,5%: Italia fanalino di coda tra i Paesi Ocse

Da 25 anni i salari crescono meno che altrove. Tra inflazione e bassa produttività, l’Ocse indica tre vie per invertire la rotta

Salari giù del 7,5%: Italia fanalino di coda tra i Paesi Ocse

In Italia si lavora tanto, ma si guadagna sempre meno. A dirlo, ancora una volta, è l’Ocse, che con il suo rapporto annuale Employment Outlook 2025 certifica una realtà che ormai nessuno può ignorare: tra il 2021 e il 2025 i salari reali italiani sono crollati del 7,5%. È la peggiore performance tra tutti i grandi Paesi industrializzati. E soprattutto, non è un’eccezione: è il culmine di un trend negativo che va avanti da oltre un quarto di secolo.

Il dato, già di per sé grave, è ancora più allarmante se si considera che negli altri Paesi Ocse la tendenza è opposta. Dopo l’impatto dell’inflazione seguita alla pandemia, molti Stati hanno recuperato terreno. L’Italia no. “Tra tutti i grandi Paesi, l’Italia resta in fondo alla classifica per crescita dei salari reali”, afferma senza giri di parole Andrea Bassanini, economista Ocse e relatore del rapporto.

Anche i rialzi nominali degli stipendi registrati nell’ultimo anno – dovuti in parte ai rinnovi contrattuali – non sono riusciti a colmare la perdita del potere d’acquisto. Secondo le stime Ocse, nel 2025 i salari nominali cresceranno del 2,6% e nel 2026 del 2,2%. Ma con un’inflazione prevista rispettivamente al 2,2% e all’1,8%, il guadagno reale sarà minimo. Insomma, si recupera poco e troppo lentamente.

I dati hanno subito acceso il dibattito politico. Le opposizioni parlano di “impoverimento certificato” e attaccano duramente l’esecutivo. “Italia maglia nera degli stipendi”, denuncia Nicola Fratoianni (Avs). Per Arturo Scotto (Pd), “i numeri confermano il fallimento delle politiche sul lavoro”. E per Maria Elena Boschi (Iv), “Meloni tartassa la classe media”. Aggiunge Mario Turco (M5S): “È il fallimento del governo Meloni”.

Ma l’Ocse non risparmia critiche neanche a chi ha governato negli ultimi anni. Se da un lato riconosce che gli interventi per contenere il caro vita “sono stati utili”, dall’altro sottolinea che non sono stati sufficienti. Il problema, però, è più profondo e strutturale: la produttività. “Le imprese italiane non riescono ad alzare i salari più velocemente perché la produttività non cresce. Se lo facessero, i profitti andrebbero in crisi”, spiega ancora Bassanini.

Il rapporto evidenzia anche un problema noto ma mai risolto: la lentezza del rinnovo dei contratti collettivi. E nel frattempo, l’Italia resta indietro anche sul fronte occupazionale: nel primo trimestre del 2025 il tasso di occupazione era al 62,9%, ben al di sotto della media Ocse del 70,4%.

Le tre vie per invertire la rotta

Cosa si può fare? Secondo l’Ocse, la chiave sta in un mix di politiche per allargare la base del lavoro. Tre le direzioni principali:

  • Più donne al lavoro: ridurre il divario occupazionale di genere – tra i più alti dell’Ocse – potrebbe generare 0,3 punti di crescita del PIL all’anno.

  • Lavorare più a lungo: allungare la vita lavorativa degli anziani in buona salute potrebbe aggiungere un altro +0,4 punti.

  • Più migranti, meglio integrati: una maggiore apertura alla migrazione regolare – e una loro vera inclusione nel mercato del lavoro – porterebbe ulteriori +0,2 punti percentuali.

Il quadro che emerge è quello di un Paese bloccato, dove il lavoro c’è, ma non basta più a garantire benessere. Dove la produttività stenta, le retribuzioni arrancano e il divario con gli altri Paesi cresce. L’Ocse non dà ricette miracolose, ma indica chiaramente la rotta: servono riforme profonde, investimenti mirati e scelte politiche coraggiose.

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