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Culicchia: «Ecco chi era Sergio, morto a soli 18 anni e ammazzato dall’odio»

A tu per tu con lo scrittore torinese del libro “Uccidere un fascista”

Giuseppe Culicchia e il suo libro

Giuseppe Culicchia e il suo libro

Il suo calvario durò 47 giorni. Oltre un mese e mezzo in cui Sergio Ramelli alternò momenti di lucidità allo stato di coma. I danni cerebrali erano così profondi da non permettere ai medici di esprimersi circa il recupero delle sue facoltà fisiche se mai si fosse salvato. Ma lui, non si salvò. Morì a Milano a soli 18 anni, il 29 aprile del 1975, vittima di un odio ideologico così profondo da trasformarsi in un agguato punitivo da parte di otto ragazzi, universitari iscritti a Medicina -, che lo colpirono al cranio con una chiave inglese riducendolo in fin di vita. Loro erano quelli di Avanguardia Operaia, Ramelli il “nemico” del Fronte della Gioventù, uno da far fuori perché “uccidere un fascista non è reato”, recitava uno degli slogan dell’estrema sinistra. È con il titolo nudo e crudo come quella frase, “Uccidere un fascista” (Mondadori), che lo scrittore e giornalista torinese, nonché neo direttore del Circolo dei lettori di via Bogino, Giuseppe Culicchia, ha deciso di riportare alla luce quei fatti in occasione dei cinquant’anni dalla morte di Ramelli la cui unica colpa fu: avere scritto un tema contro le Brigate Rosse.

“Uccidere un fascista” un titolo forte…
«Il titolo deriva dallo slogan “uccidere un fascista non è reato” perché Ramelli viene ucciso da persone convinte che quello non fosse un reato. Fu compiuto dagli stessi che avrebbero additato come attacco squadrista un agguato simile. Prima dell’aggressione avvenuta il 13 marzo del 1975, Ramelli è stato perseguitato, picchiato, preso a pugni, vessato. Lui provò a difendersi, fino a quando suo padre decise di ritirarlo da scuola, ma anche lui venne picchiato e insultato. E la scuola non fece nulla».

Perché?
«Perché, Ramelli era in assoluta minoranza».

Ci racconti ancora…
«Ramelli successivamente si iscrive a un istituto privato, ma durante quei mesi terribili viene fotografato, viene schedato, in via Bligny, dove ha sede Avanguardia Operaia, ci sono migliaia di schede, una parla anche di lui e un giorno viene consegnata ai suoi aggressori».

Tutto per un tema: si può perdere l’umanità in nome di un’ideologia?
«Si può perdere l’umanità, se si eclissa, prevale l’ideologia. Nel momento in cui Ramelli viene aggredito viene perso qualsiasi aspetto umano in nome del principio secondo cui ogni fascista va punito».

Non ha avuto paura che il titolo sarebbe stato frainteso, che lei sarebbe potuto passare per fazioso?
«Ero certo che sarebbe stato frainteso, come davo per scontato che qualcuno mi avrebbe accusato di averlo pubblicato durante il Governo Meloni».

Ma?
«Invece, quando l’ho scritto Fratelli d’Italia aveva il 4 per cento, l’ho consegnato nel marzo del 2022. E oggi, a due mesi dalla sua pubblicazione, sono felice del fatto di avere avuto buone recensioni, non solo sui giornali destra, la maggior parte delle persone ha capito il mio intento».

Ovvero?
«Restituire l’umanità perduta a questo ragazzo…».

È un dramma che la tocca da vicino: Walter Alasia, il brigatista morto un anno dopo, nel 1976, in uno scontro con la polizia, era suo cugino…
«Sì, a lui ho dedicato due libri. Concludendo la trilogia con Ramelli mi è sembrato di chiudere un cerchio. È vero, Walter aveva deciso lui di impugnare un’arma, sapeva a cosa sarebbe andato incontro, Ramelli impugnò una penna. Entrambi provenivano da famiglie modeste, entrambi tifavano Inter, entrambi hanno avuto un genitore poi morto di crepacuore, entrambi erano solo dei ragazzi».

Ha conosciuto qualcuno della famiglia di Ramelli?
«Sì, la sorella Simona, l’ho incontrata durante la stesura. Quando avvennero i fatti, aveva solo nove anni, la sua vita è stata segnata per sempre».

Che influenza può avere questo libri sui giovani di oggi?
«Io spero che i ragazzi che lo leggono riflettano sul fatto che l’avversario non è mai un nemico, le idee si combattono con le idee non con l’odio, è ora di superare l’odio e di avere rispetto delle visioni altrui».

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