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«Sergio Ramelli? Vittima di un periodo buio. E chi l'ha ucciso non si è mai pentito»

Giuseppe Culicchia presenta "Uccidere un fascista", dov'è raccontata la storia del 18enne ammazzato a Milano nel 1975

Giuseppe Culicchia e Stefano Commodo alla presentazione del libro "Uccidere un fascista"

Giuseppe Culicchia e Stefano Commodo alla presentazione del libro "Uccidere un fascista"

Una vittima. Di un periodo storico in cui la gente usciva in strada gridando: «Uccidere un fascista non è reato». Ma soprattutto un ragazzo, che quando è stato ammazzato aveva solo 18 anni, nessun precedente penale né partecipazioni a risse o scontri di piazza. Amava l’Inter e le canzoni di Celentano, Sergio Ramelli, lo studente milanese rimasto vittima di un agguato 50 anni fa, nel 1975, protagonista del libro “Uccidere un fascista”, scritto da Giuseppe Culicchia e presentato a Torino al Centro studi San Carlo in un evento organizzato da Rinascimento Europeo (col portavoce Stefano Commodo) e Fondazione Quarto Potere (presente il vicepresidente Beppe Fossati). Un libro in cui Culicchia dà del “tu” a Ramelli «perché voglio restituire al lettore il lato umano di Sergio. Che appunto era un ragazzo, la cui colpa è stata quella di brandire una penna, anziché una pistola, e scrivere un tema a scuola in cui condannava le Br».

Per quel tema Ramelli è stato dapprima minacciato, poi aggredito e ammazzato. Nel volume, Culicchia si sofferma sui giorni successivi all’agguato del 13 marzo 1975, quando i genitori rispondevano al telefono a persone che si “congratulavano” perché qualcuno aveva pestato a sangue il loro figlio. E poi ancora, le scritte sui muri di casa che recitavano “Dieci, cento, mille Ramelli, con una riga rossa tra i capelli”. «Un libro che non vuole essere un romanzo - ha precisato lo scrittore - bensì la descrizione di un giovane che non aveva mai fatto del male a nessuno ed è morto solo perché iscritto al Fronte della gioventù. E quindi, per questo motivo doveva essere ucciso».

Nelle pagine, Culicchia racconta il dolore «di quella che veniva definita la “famiglia di un fascista”. E che, come tale, dolore non poteva e non doveva provarlo. Un dolore che non poteva avere cittadinanza». Erano gli anni di piombo, del terrorismo, anni in cui «all’università bastava un semplice tema per ricevere le botte. Anni in cui - ha ricordato Beppe Fossati, vicepresidente di Fondazione Quarto Potere - schierarsi era complicato. La vicenda milanese di Ramelli ricorda quella torinese dell’Angelo azzurro, dov’era morto un altro innocente, Roberto Crescenzio». Culicchia ha paragonato Ramelli a Walter Alasia. «Due ragazzi - così Culicchia - che avevano molto in comune: figli di famiglie lavoratrici, nati nel ‘56 a pochi chilometri e a pochi mesi di distanza, amavano la musica, l’Inter, i capelli lunghi, e andavano tutti e due a scuola in un istituto tecnico. Li divideva solo la politica».

Per l’uccisione di Ramelli, i responsabili sono stati processati e condannati (anche se alcuni hanno usufruito di condoni e pene alternative). Ma guardando oltre i processi e le condanne, sorge una domanda: chi erano i mandanti dell’aggressione poi sfociata nell’omicidio del giovane Ramelli? Per Culicchia «il mandante è diffuso. Chi ha ucciso Sergio non si è mai pentito, perché successivamente ha pestato un avventore di un bar a Milano. Sergio Ramelli era solamente un ragazzo, ma è stato la vittima del clima di un periodo storico». Un periodo storico in cui, per molti, uccidere un fascista non era un reato.

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