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La storia del Rondò della forca, il borgo delle condanne a morte

RondoForca

Se si pensa alla forca di Torino, si pensa subito al Rondò all’incrocio tra corso Regina Margherita, corso Valdocco, corso Principe Eugenio e via Cigna; ma pochi sanno che il patibolo delle esecuzioni capitali ha “sciamato” per mezza città, e che nel Rondò della Forca rimase tutto sommato per pochi anni. Innanzi tutto, è bene dire che in Ancien Régime le esecuzioni avvenivano nelle piazze centrali (Castello, San Carlo o delle Erbe), perché erano parte di una celebrazione del potere che passava anche dalla morte; i giudici per taluni reati prediligevano pene particolarmente esemplari e truculente, come lo squartamento.

La giustizia civile era certamente truculenta e anche un po’ “splatter”: i pezzi dei corpi dei criminali erano talvolta esposti alle porte della città; questo avveniva non soltanto a Torino ma in generale in tutta Europa, era una prassi comune. La ghigliottina “democratizzò” la morte: nobili e popolani avrebbero avuto tutti la stessa sorte. La ghigliottina era collocata in piazza Carlo Emanuele II. Nell’Ottocento, prima la forca fu collocata nei pressi di piazza Giulio (ora, piazza Emanuele Filiberto), lungo il tracciato dei vecchi bastioni ormai distrutti; quindi, venne spostata nel celebre Rondò della Forca, dal 1835. All’epoca il Rondò della Forca era un semplice spiazzo ai limiti della città, attorno al quale non c’era granché; mancava ancora il complesso di Valdocco che don Bosco avrebbe costruito da lì a qualche anno. Oltre, c’era la campagna e una manciata di casupole sparse lungo l’asse di via Cigna. Ma, vista l’espansione della città e la vicinanza alle case, il patibolo fu ulteriormente spostato nella spianata della Cittadella in via di demolizione, nell’area oggi occupata dalla nuova Porta Susa. Forse, per vicinanza con piazza d’Armi, dove avvenivano alcune sentenze particolarmente significative dal punto di vista politico: è il caso della fucilazione del generale Girolamo Ramorino (22 maggio 1849), processato perché ritenuto responsabile della disfatta di Novara.

Il boia più celebre fu Pietro Pantoni, contemporaneo di San Giuseppe Cafasso, il confessore degli impiccati: oggi, una statua raffigura il sacerdote proprio al Rondò della Forca, ed è un po’ sacrificata in mezzo al traffico. San Giuseppe Cafasso è uno dei santi più amati della storia torinese: è uno dei cosiddetti “santi sociali”, che si è speso per la salvezza delle anime di tanti criminali (ma anche di tanti proverbiali poveri diavoli) che erano finiti negli ingranaggi implacabili della giustizia del vecchio Regno di Sardegna. La forca originale è tutt’oggi conservata: si trova al museo Lombroso, in via Pietro Giuria. I torinesi la chiamavano la Beata: un modo ironico per indicare uno strumento di morte che fu progressivamente abbandonato e che oggi è legato in modo indissolubile alla Torino dell’Ottocento.

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