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L'equazione dietro le sbarre

carcere sbarre

(depositphotos)

Per tutti, nella cronaca così come nel cordoglio cosiddetto istituzionale, quel ragazzo di ventidue anni sarà semplicemente un detenuto, oppure il 72° suicida nelle carceri italiane - e quattro erano agenti di custodia. Senza identità, perché da un lato la macchina giudiziaria fatica a fornire nomi e cognomi - mentre le statistiche sono sempre aggiornatissime -, dall’altro non esiste interesse a comprendere al di là del fatto, nel senso che chi si sente in dovere di commentare, ammettendo che il problema esista, il numero è di per sé sufficiente a delineare la portata di una emergenza.

Ma non abbastanza, pare, per chi di dovere, dal momento che i governi si succedono - e con essi le presunte riforme giudiziarie e carcerarie - ma i problemi restano. E i prigionieri anche, chiusi dietro porte che la società civile non vuole aprire, dietro cui non vuole guardare. Prigionieri i reclusi, costretti in condizioni indegne, prigionieri i lavoratori in quel sistema. Troppi i primi, spesso per questioni di poco conto, troppo pochi i secondi.

Il sistema non funziona, questo dovrebbe essere chiaro: perché non è ammissibile che chi si trova in custodia dello Stato - in custodia, chiaro? Ossia lo Stato ne è responsabile, non carnefice - finisca con il perdere la vita. Non è ammissibile che vadano in carcere persone anziane per reati di poco conto, che finiscano in cella giovanissimi per reati minori che lì, dietro le sbarre, troveranno certo una “scuola” che li renderà delinquenti sul serio. Quante volte questa situazione è stata raccontata su queste pagine? Quante volte ancora andrà raccontata? Per chi si riempie la bocca dei teoremi sulla sicurezza, giova ricordare che carceri decenti fanno parte dell’equazione.

andrea.monticone@cronacaqui.it
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