Ricordo come fosse ora quella mattina di sei anni fa. La telefonata del caporedattore all’alba («c’è stata un’altra alluvione, pare ci sia un disperso, vai?»), due minuti per vestirmi mentre veniva su il caffè. E poi via. Evitando i massi rotolati sull’asfalto con i tronchi, accelerando quando la statale, di colpo, diventava un fiume di acqua sporca e fango. Di corsa verso quelle montagne su cui da bambino imparai a giocare, con il groppo in gola di rivederle come nel 2000. Quando il Chisone spazzò via ponti e pezzi di vita, prendendosi, dicevano i vecchi, lo spazio che gli era stato tolto nel corso degli anni. Questa volta, il fiume che nasce in Val Troncea e accarezzando Pragelato e Fenestrelle scende fino a Porte prima di mescolare le sue acque a quelle del Pellice, non aveva “colpe”. Il disastro, il 25 novembre 2016, arriva dall’alto. Dagli affluenti: quei rii come l’Albona che ha strappato via anche i muri di contenimento appena costruiti, o il rio Agrevo (appena ripulito), che tracima a Brandoneugna, isolando la frazione Meano, chiusa dall’altra parte da una frana che taglia in due la regionale 23. L’epicentro del disastro è a Perosa Argentina. L’angoscia, mentre il sole squarcia il cielo come sempre dopo che le nuvole hanno seminato morte e distruzione, è palpabile. Chi crede prega, gli altri sperano. Tutti si chiedono se ci sia una speranza di ritrovare vivo Giuseppe Sergio Biamino, il materassaio che qui tutti chiamano “Biamin”. Ha 70 anni, abita sulla ex statale, accanto al negozio di tende che ha gestito prima di andare in pensione e dove ora continua a dare una mano al figlio maggiore. C’è anche lui, Andrea, nella notte, quando Biamin arriva al maneggio lambito dal rio Albona. I loro cavalli sono in pericolo, li salvano. Ma la strada cede. L’asfalto si spacca, Biamin scivola, l’acqua lo inghiotte, Andrea urla, si dispera. Lo cercheranno per tutta la giornata, sulle sponde di quel Chisone che anche quando torna il sole continua a ingrossarsi. E lo trovano morto. Erano sei anni fa, il sindaco di allora ha scritto progetti, ottenuto i finanziamenti. Quello nuovo li aspetta ancora. Di soldi veri ne sono arrivati solo la metà. Ergo: metà delle opere non si sono potute fare. Perché nel frattempo, in Italia, ci sono state altre alluvioni, altri disastri. E le risorse sono state dirottate altrove. Ma di questo non si parla. Perché emergenza nuova scaccia emergenza vecchia. Adesso c’è Ischia, domani lo Stato porterà un altro mazzo di fiori a un funerale, qualche politico dirà che drammi simili non si dovranno ripetere. E a Perosa non resta che invocare la pietà del cielo, del Chisone, e dei suoi affluenti.
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