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Matteo Messina Denaro, preso il boss dei boss che voleva un patto tra le mafie a Torino

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Gaetano Badalamenti, Calogero Bagarella, Salvatore Riina (Totò ù curtu), Giovanni Brusca, Giuseppe e Filippo Graviano e ora Matteo Messina Denaro (detto Diabolik). Il magistrato torinese dai capelli d’argento, da anni a riposo, ma che ha trascorso tutta la vita a perseguire terroristi e mafiosi elenca quei nomi come fossero litanie maledette: «Non dimentichiamoci - sottolinea Gian Carlo Caselli - che dopo l’arresto o la morte di ognuno di loro, Cosa Nostra ha sempre continuato ad agire, come e più di prima». L’ex procuratore capo di Palermo e Torino non ha dubbi: «Al di là delle persone, dei boss che si sono succeduti nel tempo, Cosa Nostra era e resta un’organizzazione. Composta certamente da criminali, ma che ha goduto e gode di connivenze, complicità e sostegni occulti che rappresentano la sua vera forza».

Complicità esterne al mondo della criminalità organizzata, ma anche interne, come nel caso degli accordi stipulati, proprio da Matteo Messina Denaro, con le famiglie della ‘ndrangheta per affondare gli artigli della mafia anche in alcune città del Nord del Paese. In Piemonte, e a Torino in particolare. Se ne trova ampia traccia negli atti di alcune operazioni di carabinieri e della polizia e nelle sentenze dei giudici. A cominciare da “Minotauro” e a seguire, nelle operazioni “Mala Tempu”, “Colpo di Coda” e “Carminius”. Sono almeno tre i pentiti citati nelle carte giudiziarie, testimoni della «politica espansionistica di “Diabolik”».

Il primo è Ignazio Zito, 64 anni e una vita trascorsa a metà, tra la mafia e la giustizia. Lui (secondo i magistrati della procura di Asti) nel 2015 era l’addetto al trasporto di bombe a mano e di altri ordigni in un covo a Carmagnola. Esplosivi che sarebbero serviti per uccidere una «persona importante, uno sotto scorta, uno che a Torino dava fastidio». Perché così avevano deciso Cosa Nostra (e Zito indica il nome di Matteo Messina Denaro) e la ’ ndrangheta insieme, unite in un patto scellerato. Un ordine impartito e da eseguire in Piemonte. Ma Zito aveva avuto paura di quell’attentato.

Non voleva che accadesse «un altro caso Falcone» e così aveva deciso di collaborare con la giustizia. Un attentato che «avrebbe sancito con il sangue» l’abbraccio tra le due mafie, quella calabrese e quella siciliana, aprendo uno scenario di cointeressenze nel traffico della droga, nell’usura, nell’inquinamen to della politica locale e del sistema degli appalti. Più nello specifico, ancora prima dei casi citati da Zito, altri due collaboratori di giustizia avevano riferito di un esperimento tentato nella provincia di Torino da calabresi e siciliani, proprio ai bagliori «della dittatura di Matteo Messina Denaro». Christian Talluto, un criminale torinese di 42 anni dal passato burrascoso di rapinatore ed estorsore, avrebbero permesso di sgominare la «Locale di ‘ndragheta» di Giaveno, il gruppo affiliato alla criminalità organizzata calabrese composta però da soli siciliani e a capo della quale c’erano Salvatore Magnis e i suoi fratelli.

Le indicazioni fornite da Talluto agli inquirenti, furono poi confermate da un più noto collaboratore di giustizia, Rocco Varacalli, conosciuto anche per aver fatto parte di un famiglia criminale che ordinò, l’8 luglio 1977, l’omicidio di Giuseppe Zucco, commesso in un bar di Torino da tre uomini incappucciati armati di lupara. Per i due pentiti, il gruppo di Giaveno (detto la Locale “bastarda”) e composto da siciliani che vivevano e operavano principalmente a Settimo Torinese e nel Chivassese, sarebbe stato il primo esperimento (ma fallito perché tutti finirono in galera) «della congiunzione di interessi» tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta.

Dunque, con l’arresto di Matteo Messina Denaro, «allo Stato va assegnata una grande vittoria - conclude Caselli -, ma proprio di fronte ad un’organizzazione come quella mafiosa e con tutte le sue complicità, è inevitabile ritenere che il problema, prima ancora che giudiziario o investigativo, sia politico. Sia chiaro, io non ce l’ho con qualcuno. Più giusto sarebbe dire che ce l’ho un po’ con tutti, perché constato che da anni dalle agende della politica è stata cancellata la parola mafia, con tutto ciò che ne consegue». Per Caselli bisogna guardare un po’ più in là, senza illudersi che la mafia sia finita con l’arresto, dopo trent’anni di latitanza (e a trent’anni dall’arresto di Riina), di un criminale malato di tumore. Agguantato dai carabinieri del Ros mentre tentava un’improbabile e goffa fuga dal cortile di una clinica palermitana dove si era recato per sottoporsi a una seduta di chemioterapia.

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