Siamo davvero ciò che mangiamo – e forse è questo il problema.
Una nuova ricerca condotta dall'Università di Portsmouth solleva preoccupazioni su quanto le microplastiche siano presenti nei nostri alimenti. Secondo lo studio, la quantità finora stimata dagli scienziati potrebbe essere stata significativamente sottovalutata. I risultati, pubblicati sulla rivista Science of the Total Environment, rivelano che molluschi come le ostriche, abitualmente presenti nella nostra dieta, ingeriscono molte più microplastiche di quanto si pensasse, soprattutto quando queste sono ricoperte da biofilm batterici che le rendono simili al loro cibo naturale, come le alghe.
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Questo rende i frammenti di plastica una minaccia ancora più seria: oltre a danneggiare gli ecosistemi marini, diventano veri e propri “cavalli di Troia”, capaci di trasportare microrganismi potenzialmente dannosi lungo tutta la catena alimentare, fino all’uomo.
Il lungo viaggio della plastica nei mari
Il termine microplastiche fu coniato nel 2004 dal biologo marino Richard Thompson per descrivere minuscole particelle di plastica – inferiori ai 5 millimetri – inizialmente trovate sulle spiagge del Regno Unito. Da allora, la loro diffusione si è rivelata ubiquitaria: si trovano nei fondali oceanici, nella neve polare, nel ghiaccio antartico, nell’acqua potabile, nel sale da cucina e persino nella birra.
La colpa? La produzione umana. A partire dagli anni Cinquanta, la produzione globale di plastica è passata da 2 a oltre 350 megatonnellate annue (dati del 2017), con un conseguente aumento dei rifiuti. Una volta dispersi nell’ambiente, questi frammenti si degradano molto lentamente, dando vita alle famigerate microplastiche. Ed è qui che inizia il vero problema: il loro impatto su fauna marina, ecosistemi e – potenzialmente – sulla salute umana.
Plastica con batteri: un invito a cena per le ostriche
Molti studi sulle microplastiche si basano su sfere di plastica “pulite”, che però non rappresentano lo scenario reale dei mari. In natura, queste particelle vengono rapidamente colonizzate da batteri che formano uno strato superficiale, noto come biofilm. Per verificare quanto ciò influisca sul comportamento alimentare degli organismi marini, i ricercatori di Portsmouth hanno condotto un esperimento su ostriche europee (Ostrea edulis), esponendole sia a microplastiche sterili sia a microplastiche ricoperte da biofilm di Escherichia coli.
I risultati parlano chiaro: le ostriche ingerivano dieci volte più plastica quando questa era “contaminata” dai batteri. Secondo gli autori, ciò rende questi frammenti più simili al cibo naturale, aumentando le probabilità che vengano ingeriti.
Il rischio per la salute umana
Sebbene lo studio non abbia riscontrato un accumulo immediato nei tessuti delle ostriche, gli autori mettono in guardia: le microplastiche potrebbero agire come vettori per agenti patogeni, trasportandoli lungo la catena alimentare. Come spiega Joanne Preston, tra gli autori della ricerca:
“La microplastica si comporta come un vero e proprio cavallo di Troia. Mentre la plastica pulita ha poco impatto, quella rivestita da biofilm è molto più facilmente ingerita. Questo ci fa capire come i batteri possano concentrarsi sulle microplastiche nelle acque costiere e arrivare fino all’uomo”.