l'editoriale
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Il collezionista folle
06 Luglio 2025 - 08:00
ll bozzetto di Monet
PROLOGO
Se per Van Gogh era stata sufficiente una pala e un campo fangoso, per questo collezionista folle – di nome e di fatto – l’impresa è stata ben più ardua: mettere insieme una raccolta degna di una Fondazione, pescando da dimenticati mercatini, aste di provincia e cantine polverose. Con fiuto da segugio e pazienza da certosino ha riesumato opere perdute, in primis un bozzetto di Claude Monet, incredibilmente sfuggito agli occhi degli esperti ufficiali. Eppure, la sua collezione, accumulata con ostinata passione e assoluta mancanza di profitto – anzi, con ingenti spese e altrettanta fatica – non sembra commuovere i custodi dell’Arte ufficiale, le Fondazioni più blasonate che lo osservano con sospetto e alterigia. Tanto che, per autenticare questo gioiello monetiano, si trova costretto a volare fino in America: impresa impossibile per chi non ha mai visto neppure un tallero guadagnato dalla sua incompresa ossessione. Così Monet resta lì, in un limbo paradossale, pronto a essere ammirato da tutti, ma destinato forse a non essere mai ufficialmente riconosciuto.
MONETIZZIAMO MONET
Il furgone del famoso antiquario di Milano si fermò con i freni che fischiavano. Guardai fuori dalla finestra senza scompormi troppo. Girai lentamente il capo, un po’ anche per il dolore alla cervicale dopo aver passato tutto il pomeriggio nella stessa posizione, intento a leggere il volume biografico su Claude Monet di Daniel Wildenstein, talmente denso di particolari e di aneddoti che l’esperto avrebbe dovuto essere un moscone sul cappello del pittore. L’antiquario si accasciò sulla poltrona di mio nonno cristonando per il temporale che lo aveva colto in autostrada: «Che vitaccia, tutto per un piccolo Monet!» esclamó tirando su con rumore il moccio dal naso. «Con un bicchierino di buon Barbera, frizzante e che non tradisce, vedrà il mondo se non in rosa almeno in vinaccia…» gli dissi offrendogli un bicchiere da osteria che trangugiò come fosse un grappino.
«Si sbrighi a farmi vedere questo bozzetto di Monet, perché si fa tardi, io so riconoscere a prima vista se sia un falso, ne ho visti tanti, tutti farlocchi».
Come inizio di una nostra buona conversazione non fu dei più delicati. Mentre io svolgevo da un panno rosso di gioielleria il piccolo cartone da me attribuito a Monet, cercavo di creare la fremante attesa che solo un regista teatrale di grande esperienza insegna ai neofiti a partire dall’alzata del sipario da non effettuarsi mai di colpo, come fanno i burattinai, ma soffermandosi a tratti come in uno sforzo contratto e sofferto. Il cartone incominciava a vedersi solo in parte, e l’occhio mai pago avrebbe trovato ad ogni istante il proprio godimento come nello spogliare una suora. «Dia quà!» quasi gridò strappandomi di mano l’antico reperto. Aveva le mani tozze, più da contadino che da pianista, tuttavia lo tratteneva delicatamente con i polpastrelli delle dita per i bordi… Stetti in silenzio per sentirlo ansimare e borbottare: «Non lo avrei mai immaginato, esattamente come lo ha descritto Paul Turkey»… poi notando la mia espressione, continuò come in un sermone, elevando il dipinto come fosse l’ offertorio Eleison.
«Non dovrei essere io ad elogiare questo tratteggio affatto impulsivo, ma non posso che meravigliarmi di fronte alla abilità del ritrattista, perché Monet fu un ritrattista per i giornali prima che un pittore impressionista. Vede anche Lei che in questo albero sulla sinistra del cartoncino, Monet si divertì a sovrapporre ben quattro volti, ciascuno apparente a seconda del riflesso della luce e della distanza focale. Per ottenere questi effetti occorre essere un prestigiatore del pennello ed un domatore della tecnica». Detto ciò mi restituì l’opera con maggior delicatezza, ma non prima di aver aggiunto: «Vede il monte bianco di neve sullo sfondo? É il monte Consass, non lontano da Cristiania, il vecchio nome di Oslo, in Norvegia. Il dipinto è del periodo in cui Monet andò a trovare suo figlio che si era trasferito per lavoro. La donnina in primo piano dovrebbe essere sua nuora col piccolo nipotino. Il particolare che mi convince della sua autenticità è l’albero giapponese sulla destra del dipinto». Stetti in silenzio dopo un lapidario “Già, chiel a l’a nen tort!” (dialetto piemontese per dare ragione senza sbilanciarsi troppo). Lui chiosò: «Un falsario non avrebbe mai dipinto un albero con i fiori giapponesi in Norvegia!». Il mio sguardo s’illuminò: «Allora può interessare al suo cliente?». Si incamminò verso la porta d’uscita della mia modesta Galleria, si voltò e mi salutò dicendomi «Vada in America dall’esperto Paul Turkey, l’unico che è accreditato alla pari di Guy Wildenstein, il Presidente della Fondazione dopo la morte di suo padre Daniel. Poi ne parleremo!” Il suo furgone riparti tossendo due nuvole di gasolio dalla marmitta.
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