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Il collezionista folle

La Sindone? Forse un volto nato dalla mente di Leonardo

Un'altra teoria frutto di studi nell'universo dell'arte che questa volta si lega anche al mistero del sacro Graal

Il collezionista folle

Il volto della Sindone

PROLOGO
Nel magico universo del Collezionista Folle tutto è possibile, persino che il Sacro Graal abbia avuto più sosia di un attore di fiction. E non basta: qui anche la Sindone cambia identità come una star dei travestimenti, pronta a sorprendere storici, fedeli e scettici. Chi si aspetta certezze, farebbe meglio a passare la mano: tra le pagine di questa rubrica regna la gioia del dubbio, alimentata da reliquie che si rincorrono da castelli francesi a botteghe fiorentine, passando per le mani di Leonardo e persino di qualche Borgia a corto di contanti. Ma è proprio questa ironica incertezza, fatta di calici luminosi e lenzuoli “fotoimpressi”, a rendere ogni indagine del Collezionista irresistibile. Così, mentre il nostro protagonista insinua che la Sindone sia un falso più geniale che sacrilego e il Graal una faccenda affollata, ci invita a sorridere della storia – e di chi ancora cerca verità dove regna il piacere del racconto.

LA SINDONE E IL GRAAL

E bravo il nostro toscanaccio Leonardo da Vinci, molto più bravo di Bertoldo che una ne fa e cento ne pensa. Non se lo fece ripetere due volte dal Re Francesco 1° di Francia, figlio di Luisa di Savoia che in seguito conservò il sudario di Gesù, noto come la Sindone. Leonardo ben sapeva la storia di Bayzamet che riguardava quel lenzuolo che proveniva da Gradiske (ex Prefettura di Macrino) dove il Principe Ulpian (citato nelle centurie di Nostradamus) venne crocifisso “ad imitationem” in quanto si dichiarava il Cristo ritornato. Con questa storia del lenzuolo mortuario, Cesare figlio di Papa Borgia ebbe a raccontare a Leonardo, durante il periodo che lo ebbe come fido consigliere e propositore di macchine da guerra, del perché Bayzamet figlio di Maometto il conquistatore ebbe a donare al Papa suo padre due reliquie provenienti da Edessa: il sudario di Ulpiano che l’imperatore Severo (successore di Eliogabalo) aveva mandato fino ad Edessa perché a nessuno venisse più in mente di dichiararsi Cristo ritornato, come fece Ulpiano e per questo crocifisso e decapitato, la cui testa fu impalata in Campidoglio come monito. Il Borgia, per pagare i servigi resigli da Leonardo, invece delle monete d’oro pattuite avrebbe voluto consegnargli due reliquie, il lenzuolo e la lancia di Langino, ma Leonardo non sapeva che farsene della lancia e si accontentò di un calice di vetro ferroso ch’era appartenuto ad Ulpiano con il quale avrebbe dimostrato di essere il discendente di Simon Mago (da Gesù chiamato Pietro con la famosa frase: “Simone: d’ora innanzi ti chiamerai Pietro e con questa pietra costruirai la mia Chesa!”.

Leonardo soppesó il pesante calice di vetro ferroso duro come una pietra, infrangibile e con la strana proprietà di diventare luminoso. E ciò accese in lui la curiosità di scoprirne il segreto essendo fin da ragazzo interessato alle emanazioni di esoteriche forze che si attribuivano alle pietre di diversi colori. Ciò che più lo sorprese fu la proprietà del calice che esposto al sole a picco di mezzogiorno, dentro ad un catino d’argento che fungesse da specchio ustorico (una scoperta di Archimede), sembrava proiettare delle figure distorte. Come aveva forse letto nei testi riprodotti dagli abati amanuensi che ricopiavano antiche carte cinesi portate a Venezia dai mercanti viaggiatori, Leonardo cercó e trovò il modo di ristrutturare le immagini distorte in immagini piane. Nell’occasione che ebbe di incontrare a Bologna, ospite dei Bentivoglio, il Re di Francia Francesco 1°, propose al Re la reliquia in suo possesso (La Sindone) e si offrì di studiare per lui il calice di Ulpiano donatogli dal Borgia.

Così inizió la loro conoscenza che diversi anni dopo lo vide ospite del Re Francesco 1° al Castello di Cloux Luce ad Amboise in Francia, dove mostrò al Re i suoi studi di ottica già descritti anni prima nel suo “Trattato della pittura”. Non è dato di sapere se fu il Re a suggerire a Leonardo di colorare le immagini verdi monotono che il calice proiettava sulle nicchie curve scavate nei muri piani, oppure se suggeriva a Leonardo di colorarle sul vetro.
Di certo Leonardo si oppose all’idea di dipingerle sul vetro poiché si sarebbero oscurate le immagini sovrapposte a fuochi ottici diversi. Meglio sarebbe stato proiettarle ristrutturate (con un metodo geniale di riconversione speculare descritto in un suo disegno) per poi dipingerle piane con dei colori appropriati rispetto ai loro significati (ad esempio l’azzurro per Maria) ed applicando alcuni accorgimenti con velature sovrapposte dello stesso colore ma con densità diversa, in modo da creare l’effetto della fascinazione dell’osservatore e della profondità tridimensionale generata dalla doppia rifrazione del raggio luminoso attraverso le velatura. La geniale idea di Leonardo diede nuova vita alla percezione umana di immagini dipinte, tuttavia lasciò irrisolto il dilemma se il calice del Borgia fosse l’autentico calice fotografico della Casa Reale di Davide con cui Gesù bevve il presunto liquido anestetico offertogli da sua Madre sulla croce e in cui cadde il sangue che gocciolava dalla corona di spine, oppure fu la geniale e sublime idea di Leonardo di foto-imprimere per riflessione i suoi dipinti su un antico calice ferroso simile a quello del Borgia per crearne una copia contenente nel vetro i suoi capolavori più importanti assieme ad uno di Filippo Lippi. Ma il dilemma non cambia, anzi apre nuovi interrogativi. Come fu possibile disporre delle immagini del mitico Graal? Semplice: fu fotografato con tre dagherrotipie nei primi anni del 1800, e qui la storia si dipana come un filo ritorto che preclude all’esistenza di un altro calice (evidentemente di veri Graal ce ne furono almeno quante furono le cattedrali “graliane”) ed uno di questi calici fu consegnato dai fuggiti da Montsegur alla Regina Margherita e da suo figlio Luigi Guglielmo Duca di Normandia al Papa nelle battaglie simulate di Arques ed Ivrì, per essere investito Re di Francia con nome di Enrico IV di Borbone.
Il Calice tornato in possesso del Papa, fu consegnato all’imperatore Napoleone che auto incoronandosi esclamò la famosa frase “Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca”: tutti compresero fosse la corona, ma il Papa capì ch’era la coppa del Graal che fu costretto a consegnare a Napoleone per essere liberato dal carcere di Savona dov’era stato tradotto prima del periodo di soggiorno ad Avignone. Il calice del vero o finto Graal passò per molte mani: prima custodito dalla ex imperatrice Josephine Beauharnais, poi passò in mano alla nipote prediletta di Napoleone la principessa Matilde Bonaparte il cui marito, Anatolio Demidoff, a Firenze l’avrebbe fatto fotografare.
Le tre dagherrotipie sarebbero state sottratte dal Conte Giuseppe Primoli, nipote di Matilde, il quale era un appassionato fotografo ammiratore di Edgar Degas. Primoli portò le dagherrotipie a Degas, nello studio fotografico del pittore, e insieme studiarono le immagini leonardesche del Graal. A questo punto della storia si può ragionevolmente ipotizzare che la testa della Sindone, conservata a Torino, già lenzuolo mortuario di Ulpiano decapitato, sia stata fotoimpressa da Leonardo da Vinci. D’altra parte anche Nostradamus aveva predetto, in una famosa quartina riferita ad Ulpiano, che fine avrebbe fatto la Sindone.

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