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Da Hollywood

James Franco bello e dannato: vietato fare domande al divo...

L’attore ha riproposto ieri il film “127 hours”, ma ecco cosa è accaduto e perché ieri al Romano

Torino Film Festival

James Franco, classe 1978

Il sorriso disarmante, la bocca cucita: giunto ieri all’ombra della Mole per poi recarsi al cinema Romano alla proiezione del film 127 hours di Danny Boyle, l’attore James Franco ha infatti deciso di non rispondere alle domande di giornalisti e cinefili e di parlare solo ed unicamente della pellicola iscritta nella sezione Zibaldone del 43° Tff, la stessa in cui è presente anche la fidanzata Isabel Pakzad, regista del lungometraggio Find your friends.

Forse temendo - nella giornata contro la violenza sulle donne - eventuali riferimenti alle presunte molestie verso alcune giovani attrici che lo spinsero nel 2021 a patteggiare, l’interprete di tre “Spiderman”, di un biopic su James Dean e dell’epico “Tristano e Isotta” ha preferito concentrarsi sul ricordo del lavoro che gli regalò la sua prima e finora unica candidatura agli Oscar: «Ho molti ricordi legati a questo film – ha dichiarato -. Raccontare la vicenda di Aron Ralston, l’alpinista statunitense che, rimasto intrappolato in un canyon, arrivò ad amputarsi un braccio per potersi liberare, fu una sfida difficile, una prova estrema non solo per me come attore, ma anche per tutti gli altri della troupe. Ogni film è diverso, ovvio, ma questo è davvero unico. Boyle è un grande. Se dovessi definirlo direi che è energico, innovatore, curioso: tutti i suoi film sono diversi perché gli piace esplorare sempre qualcosa di nuovo, non solo nei temi ma anche nelle modalità».

Camicia nera e giacca grigia, Franco ricorda la fatica sul set: «Boyle voleva fare un film estremo, con un personaggio intrappolato. Il giorno in cui girammo la scena dell’incidente, mi chiese di reagire in modo naturale alla “prigionia” fino a quando non mi avesse dato lo stop. Beh, mi divincolai per circa venticinque minuti: alla fine ero stremato, sudatissimo».

Una prova d’attore che gli valse la nomination agli Oscar: «Da giovane, recitare era l’unica cosa che dava significato alla mia vita, quindi l’impatto di quella nomination fu notevole, la realizzazione di un sogno. Un’emozione perfino esagerata. Ora, dopo più di ottanta film, non sento più solo l’esigenza di raccontare storie: da ossessivo, so bene quanto l’equilibrio sia essenziale. E devo dire che l’Italia, di cui amo il cinema e dove ho girato “Hey Joe” e “Squali”, è dove riesco a trovare un ottimo equilibrio tra il lavoro ed il relax».

di Danila Elisa Morelli

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