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IL PERSONAGGIO
11 Settembre 2023 - 20:48
Dante Alighieri mise mai piede a Torino? La risposta è: non lo sappiamo. E così, c’è spazio per alcune supposizioni. La prima è legata al viaggio, molto discusso, che il poeta fiorentino avrebbe fatto a Parigi. Lo compì davvero? Due uomini illustri come Giovanni Boccaccio e Giovanni Villani asserirono che Dante quel viaggio lo fece davvero, per studiare alla Sorbona. Scrisse l’autore del Decameron che il Sommo Poeta “se n’andò a Parigi e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede”. Secondo il Villani, Dante fu “a Parigi, e in più parti del mondo”. La strada pe rla Francia, allora come oggi, era quasi obbligata: si doveva attraversare le Alpi, e il passaggio dei monti non era uno scherzo.
Non c’erano strade, solo ripidi sentieri sui quali era facile incontrare banditi e fuorilegge. I monaci, per questo, avevano predisposto dei sistemi di alloggiamento dei pellegrini e dei viandanti: come quello che dal 1035 era sito al San Bernardo, nome che si deve a san Bernardo di Mentone, geniale ideatore di un sistema di alloggio dei viaggiatori. Insomma, le Alpi andavano passate, volenti o nolenti. E per farlo bisognava prima attraversare il Piemonte, in genere sostando proprio a Torino prima di intraprendere il percorso alpino. Ecco perché si può supporre, qualora il discusso viaggio di Dante in terra francese fosse accolto dagli studiosi moderni, che il Sommo Poeta sia almeno transitato per Torino. Dante, però, non dedica una riga dei suoi scritti a Torino, e ciò si può ben spiegare con l’assoluta irrilevanza che l’attuale capoluogo piemontese aveva al tempo del poeta. Qualche richiamo, per altro non da poco, vi è invece nella Commedia alle Alpi e al paesaggio piemontese: il Monviso e le sorgenti del Po sono citate come “quel fiume c’ha proprio cammino / prima dal Monte Viso ’nver’ levante / da la sinistra costa d’Apennino” (così nel canto XVI dell’Inferno). Ancora una citazione del Po in Paradiso, VI: “Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi / che di retro ad Annibale passaro / l’alpestre rocce, Po, di che tu labi”. La pianura padana appare fugacemente come “lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina”. Unico esponente della politica piemontese di allora a trovare spazio nella Commedia è Guglielmo VII, marchese del Monferrato, collocato in un posto d’onore nella valletta dei principi del Purgatorio: “Quel che più basso tra costor s’atterra, / guardando in suso, è Guiglielmo marchese, / per cui e Alessandria e la sua guerra / fa pianger Monferrato e Canavese” (Purgatorio, canto VII). In Paradiso, invece, è collocato Ubertino da Casale, noto predicatore dell’epoca di Dante, mentre all’inferno trova posto l’eretico fra’ Dolcino da Novara, citato addirittura da personaggio come Maometto nel canto XXVIII.
Citazioni significative ma comunque poca cosa: la nostra regione, nell’anno 1300, era ancora un luogo di estrema periferia, senza quella vitalità che caratterizzava la Toscana, la Lombardia e il Veneto. Il Piemonte non aveva granché che potesse attirare l’attenzione di dante. Nemmeno la lingua: Nel De Vulgari Eloquentia, negò che le parlate di Alessandria e di Torino potessero essere considerate veramente italiane. Aveva ragione: la lingua piemontese non è un dialetto dell’italiano, ma è una lingua a sé stante: fa parte delle lingue galloromanze, non discende dal volgare toscano trecentesco (che ha dato origine alla moderna lingua italiana) ed ha una propria grammatica.
Scrisse Dante che queste città “sono situate talmente vicino ai confini d’Italia che non possono avere parlate pure; tanto che, se anche possedessero un bellissimo volgare - e invece 1’hanno bruttissimo -, per come è mescolato coi volgari di altri popoli dovremmo negare che si tratti di una lingua veramente italiana”. Il giudizio piuttosto lapidario e tranchant sulle parlate di Torino e Alessandria deve farci riflettere e sollevare nuovamente il quesito: Dante davvero transitò per queste contrade?.
Giorgio Enrico Cavallo
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