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26 Marzo 2025 - 19:45
Una chat privata che doveva restare tale, e invece è finita sotto gli occhi del giornalista sbagliato. È bastato un clic in più – o meglio, un destinatario di troppo – per far esplodere il caso: all’interno di un gruppo Signal utilizzato da esponenti dell’amministrazione Trump per discutere piani militari sull’intervento in Yemen, viene aggiunto per errore Jeffrey Goldberg, direttore di The Atlantic. Il contenuto? Altamente riservato. I protagonisti? Nomi pesanti, come il vicepresidente JD Vance e il segretario alla Difesa Pete Hegseth.
L’incidente ha acceso i riflettori su Signal, l’app di messaggistica che più di ogni altra ha fatto della privacy assoluta la propria bandiera. Ma cos’è davvero Signal? E perché, nel mondo ipercontrollato delle comunicazioni digitali, è considerata l’ultima roccaforte della riservatezza?
Disponibile per Android, iOS e desktop, Signal permette di scambiare messaggi, effettuare chiamate vocali e video, inviare immagini, documenti e file multimediali. Tutto – ogni singolo dato – è crittografato end-to-end: né hacker, né aziende, né governi possono accedere alle conversazioni. Neppure gli sviluppatori dell’app.
Un principio semplice ma potente: quello che viene detto su Signal, resta su Signal. Almeno fino a quando lo si desidera, grazie anche a funzionalità come i messaggi a scomparsa e il blocco tramite codici d’accesso o dati biometrici.
Registrarsi è facile: si scarica l’app e si utilizza il numero di telefono come identificativo iniziale. Ma da poco Signal offre anche la possibilità di usare semplici nomi utente, evitando così di dover condividere il proprio numero: una mossa che rafforza ulteriormente l’anonimato. Ogni profilo – nome, immagine, informazioni – è comunque cifrato e invisibile a chi non è autorizzato.
Per funzionare su desktop, Signal deve essere prima installata su un dispositivo mobile. Ma una volta configurata, diventa un’estensione discreta e sicura della comunicazione, anche fuori dall’ambito privato.
Rispetto a WhatsApp e Telegram, Signal non accetta compromessi. WhatsApp – pur offrendo la crittografia – raccoglie una grande mole di metadati: chi parla con chi, da dove, con quale dispositivo. Telegram, invece, applica la crittografia end-to-end solo alle chat segrete, lasciando le conversazioni standard più vulnerabili.
Signal, al contrario, non conserva nulla, nel caso dovesse collaborare con le autorità, non offrirebbe nulla. E chi vuole spingersi oltre può usare una VPN per oscurare anche il proprio indirizzo IP.
A rendere Signal ancora più unica è la sua trasparenza totale. Il codice dell’app è open source: chiunque può esaminarlo, verificarlo, migliorarlo. Dietro l’app c’è una fondazione no-profit guidata da Meredith Whittaker, volto simbolo della lotta contro l’invadenza delle Big Tech. Nessun obiettivo commerciale, nessuna raccolta dati, nessuna pubblicità.
Eppure, Signal non è la soluzione perfetta per ogni ambito. Soprattutto non lo è per le istituzioni. La sua indipendenza è la sua forza, ma anche il suo limite: governi e apparati di sicurezza preferiscono sistemi che possano integrare controlli, accessi e strumenti di sorveglianza interna. Signal, per sua stessa natura, non lo consente. È una fortezza a prova di intrusione, anche per chi vorrebbe entrarvi con intenti “ufficiali”.
Mentre le app di messaggistica tradizionali si muovono tra esigenze commerciali e compromessi sulla privacy, Signal si presenta come l’ultimo rifugio sicuro per chi vuole comunicare senza essere spiato. Che si tratti di attivisti, giornalisti o – come dimostra il caso Trump – di chi maneggia informazioni altamente sensibili, la risposta è sempre la stessa: “Ci sentiamo su Signal”.
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