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Curiosità
05 Maggio 2025 - 13:30
Nel vasto impero del fast food, dove ogni panino si trasforma in un simbolo e ogni idea viene moltiplicata per migliaia di punti vendita, anche il gigante può inciampare. E quando succede, il rumore si sente a lungo. La storia della McPizza è uno di quei rari momenti in cui McDonald’s ha tentato di cambiare le regole del gioco, ma è uscito dal campo prima del fischio finale.
Siamo alla fine degli anni Ottanta. McDonald’s cavalca un’onda d’oro fatta di McNuggets, Big Mac e aperture in tutto il mondo. Ma nel quartier generale di Oak Brook, Illinois, qualcuno pensa che il menu possa (e debba) evolvere. Perché non aggiungere la pizza, piatto universale, amato da grandi e piccoli, che ben si sposa con l’idea di pasto condiviso?
Detto, fatto. O quasi. Nel 1989, nasce la McPizza. Non una semplice fetta, ma una pizza intera, servita in formato personale. Disponibile in alcune sedi selezionate di Stati Uniti e Canada, arrivava con topping classici: margherita, pepperoni, verdure. I dirigenti investirono milioni nello sviluppo di forni speciali, nella formazione del personale e nella riorganizzazione delle cucine. L’idea era ambiziosa: servire un prodotto di qualità in un tempo compatibile con lo standard McDonald’s.
Ma la pizza, si sa, ha bisogno di pazienza. E la McPizza ne richiedeva troppa.
Il tempo medio di preparazione era di 10-12 minuti. Un’eternità per un cliente abituato a ricevere un Big Mac in due. Nei drive-thru, vero motore del successo dell’azienda, si formavano code mai viste. I clienti aspettavano irritati, il personale si affannava e le pizze uscivano lentamente. Il prezzo – tra 5 e 7 dollari dell’epoca – risultava alto rispetto al resto del menu. E le recensioni, tiepide.
Il problema della McPizza non fu solo logistico, ma culturale. McDonald’s era (ed è) sinonimo di hamburger, patatine e velocità. Introdurre la pizza significava tradire quell’identità. Inoltre, la pizza è un piatto che porta con sé un immaginario familiare, autentico, profondamente legato alla tradizione. Difficile, se non impossibile, replicarlo sotto luci al neon e con stoviglie in plastica.
A tutto questo si aggiungeva un panorama competitivo già affollato: Pizza Hut, Domino’s, e altri player consolidati offrivano consegna a domicilio, prezzi aggressivi e un’offerta più ampia. Per McDonald’s, trovare spazio fu impossibile.
Secondo le analisi interne, solo la fase di test e rollout costò circa 30 milioni di dollari. A questi si aggiunsero spese in marketing, promozioni, materiali, formazione e modifiche architettoniche nei locali. Il conto finale superò i 100 milioni di dollari.
Nel 2000, con discrezione, la McPizza venne ritirata da quasi tutti i menu. Restò disponibile solo in una singola sede a Pomeroy, Ohio, che divenne meta di culto per nostalgici, food blogger e curiosi. Per anni, quel ristorante fu l’ultimo avamposto di un sogno fallito.
La McPizza è un caso di studio nelle business school e una storia raccontata con un sorriso amaro dai manager più esperti. Insegna che anche i colossi non possono tutto. Il brand positioning conta, così come la coerenza con le aspettative del pubblico. Una pizza da McDonald’s? Forse no. Anche perché, nel frattempo, il gigante ha saputo imparare.
Oggi McDonald’s innova senza snaturarsi. Dai McPlant a base vegetale al delivery smart, fino alle collaborazioni con celebrity e menù su misura per ogni Paese, la lezione della McPizza è stata assimilata: non serve cambiare identità per restare al passo. A volte, basta perfezionarla.
E quella volta che McDonald’s sfidò Napoli? Rimane nella storia, come un grande "e se..." incorniciato da una crosta troppo cotta e da un’attesa un po’ troppo lunga.
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