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la parità e la genitorialità
03 Giugno 2025 - 11:45
Essere genitori non è un’abilità che si acquisisce con un manuale, né un ruolo che si esaurisce con l’età dei figli. È un viaggio continuo, fatto di tentativi, errori, riconoscimenti e trasformazioni. In questo percorso, una domanda torna ciclicamente a galla: i genitori possono essere anche amici dei propri figli? E se sì, a quali condizioni?
Secondo le psicologhe Giulia Amicone e Federica Micale di Apsicologa, ogni genitore incarna il proprio ruolo in modo unico, influenzato da esperienze, valori e credenze personali. Questo rende ogni relazione genitoriale diversa e, al contempo, soggetta a evoluzione nel tempo. Tuttavia, un elemento resta fisso: il compito educativo del genitore.
Nella psicologia dello sviluppo, rimangono centrali gli stili genitoriali teorizzati da Diana Baumrind. Dallo stile autoritario, rigido e direttivo, a quello trascurante, distaccato e poco presente emotivamente, fino agli approcci più “desiderabili”: lo stile permissivo, orientato al dialogo ma senza regole chiare, e lo stile autorevole, che combina calore e regole, supporto e struttura. Ma attenzione: non si sceglie uno stile come si fa con un vestito. Piuttosto, esso emerge da un complesso intreccio di vissuti e necessità, e va costantemente ricalibrato con flessibilità.
Un esempio emblematico è il coming out di un figlio o di una figlia: un momento che può mettere alla prova convinzioni radicate nei genitori e richiedere tempo per essere accolto con piena comprensione. È qui che il conflitto, lungi dall’essere solo qualcosa da evitare, si trasforma in un’opportunità di crescita.
E allora, dove si colloca l’amicizia? È possibile conciliare l’apertura emotiva con l’autorità educativa?
La risposta delle esperte è chiara: «Un genitore che svolge il suo compito educativo non può essere un amico». L’amicizia si fonda sulla parità, sulla reciprocità. Il rapporto genitore-figlio, invece, è asimmetrico per natura. Il genitore ha la responsabilità di guidare, sostenere, contenere. È una figura di riferimento, non di specchio.
Eppure, nell’epoca della positività a tutti i costi e dell’“essere sempre vicini”, è facile cadere nel mito del genitore-peluche: colui che, per fragilità personale o desiderio di sentirsi ancora giovane, rinuncia all’autorità per diventare il “migliore amico” del figlio. Ma questo modello, per quanto benintenzionato, può rivelarsi dannoso.
Confidarsi non significa scaricarsi. Raccontare momenti della propria vita può creare connessione, ma quando il genitore riversa i propri problemi sul figlio – magari adolescente – si rischia di caricarlo di un peso emotivo che non gli compete. I figli non devono diventare terapeuti, né confidenti, perché ciò può generare ansia, inadeguatezza, senso di colpa.
Con il tempo, e specialmente quando i figli diventano adulti, il rapporto può trasformarsi e assumere sfumature più orizzontali. Ma anche allora, la capacità di filtrare ciò che si condivide resta un gesto fondamentale di cura.
In conclusione, non serve essere amici per essere buoni genitori. Serve presenza, ascolto, autorevolezza. Serve sapere quando parlare e quando contenere. E soprattutto, serve ricordare che la confidenza non è sinonimo di parità, ma può convivere con l’autorevolezza se guidata da equilibrio e consapevolezza.
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