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vite di lusso
30 Giugno 2025 - 11:55
Di certo non è una novità sognare di vivere in albergo. Ce lo hanno mostrato decenni di cinema e serie tv: Chuck Bass e la sua penthouse all’Empire Hotel, i piccoli Zack e Cody nell’immaginario Hotel Tipton, Johnny Marco allo Chateau Marmont, Royal Tenenbaum al Lindbergh Palace (che in realtà è il Waldorf Astoria). E anche se sono solo personaggi di fantasia, quell’idea di vivere in un luogo in cui qualcuno rifà il letto al mattino e serve cocktail la sera continua a esercitare un fascino potente.
Ma la domanda resta: è davvero possibile vivere in albergo?
Una delle storie più emblematiche arriva dalla campagna inglese. I coniugi David e Jean Davidson, pensionati di Sheffield, hanno scelto nel 1997 di trasferirsi definitivamente in un Travelodge, una catena economica di hotel posizionati lungo le autostrade britanniche. La loro camera si trovava in una stazione di servizio sulla A1, vicino a Gonerby Moor. Niente vista panoramica o servizio in guanti bianchi, ma una routine comoda e affidabile: una camera sempre pulita, colazione pronta e zero incombenze domestiche. Dopo dieci anni di soggiorno ininterrotto, la direzione dell’hotel li ha omaggiati con una targa fuori dalla loro stanza, ribattezzandola “The Davidson’s Suite”. Totale della spesa: circa 100.000 sterline.
Al polo opposto del comfort, dello stile e del budget c’è la storia di Coco Chanel, che ha vissuto al Ritz di Parigi per ben 34 anni, nella suite n. 302, affacciata su Place Vendôme. Arredò personalmente gli spazi, rendendoli una seconda casa, a due passi dal suo atelier. Quella stessa suite oggi è prenotabile a una cifra che può superare i 40.000 euro a notte: un monumento al lusso e a un’idea di vita che rifiuta il compromesso.
Tra le storie meno conosciute ma affascinanti, c’è quella del poeta Horacio Ferrer, che nel 1976 acquistò un appartamento all’Hotel Alvear di Buenos Aires e ci visse con la moglie fino alla sua morte, nel 2014. Una permanenza durata 38 anni, tra lampadari art déco, moquette silenziose e stanze impregnate di storia. L’Alvear ha ospitato celebrità del calibro di Walt Disney, Fidel Castro, Sean Connery e Christina Onassis. Quest’ultima comprò una suite esclusivamente per poter telefonare in totale privacy.
A Hollywood, l’albergo è stato più di un’abitazione: un teatro della vita stessa. Il miliardario Howard Hughes prenotò camere e bungalow al Beverly Hills Hotel per 30 anni, spesso senza nemmeno soggiornarvi. Difficile sapere se ci vivesse davvero o se li tenesse solo per avere un luogo sicuro dove scomparire. Di certo, la sua abitudine di ordinare un sandwich e farselo lasciare su un ramo fuori dal bungalow è diventata leggenda.
E poi c’è Irving V. Link, protagonista di una delle storie più eccentriche. Intermediario d’affari, frequentò il Beverly Hills Hotel ogni singolo giorno per 42 anni, soprattutto l’area piscina. Faceva colazione alla Polo Lounge, prendeva il sole nella sua cabana, giocava a carte con gli ospiti e rientrava a casa solo per cena. Fu coinvolto anche, suo malgrado, in un tentativo da parte di Bobby Kennedy di coinvolgerlo in un’indagine contro Jimmy Hoffa. Ma la sua routine, salvo rare interruzioni, restò immutata: 15.000 visite all’hotel, un record imbattuto.
Nell’epoca del “nomadismo digitale” e della smaterializzazione degli spazi di lavoro, l’idea di vivere in hotel è meno folle di quanto sembri. In molti iniziano a frequentare regolarmente alberghi di lusso senza soggiornarvi: una colazione, un pomeriggio al bar, una giornata in piscina diventano esperienze accessibili (a volte). Si tratta di ciò che il sociologo Ray Oldenburg chiamava “terzo luogo”: spazi informali tra casa e lavoro, dove si costruiscono relazioni e si coltiva una forma di benessere condiviso. Ma lo sappiamo, rallentare oggi sembra un lusso che non tutti possono permettersi, utopia nel mezzo del tran tran quotidiano.
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