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VIDEOGIOCHI
08 Luglio 2025 - 15:00
La scena è familiare a molti videogiocatori: un titolo amato, magari pagato a prezzo pieno, smette improvvisamente di funzionare. La causa? I server sono stati spenti. Nessun rimborso, nessun piano B. Proprio contro questa pratica, sempre più diffusa nell’era dei giochi “always online”, si è mossa l’iniziativa Stop Killing Games, lanciata nel 2024 dal creator Ross Scott. Oggi, quella che sembrava una campagna simbolica ha raggiunto un traguardo concreto: oltre 1,1 milioni di firme raccolte nell’ambito dell’Iniziativa dei Cittadini Europei. Abbastanza per costringere la Commissione Europea a prendere posizione.
L'obiettivo della campagna è chiaro: impedire che i giochi acquistati diventino inutilizzabili solo perché le aziende decidono di dismetterne i server. Una pratica che, secondo i promotori, priva i consumatori dei propri diritti e alimenta l’illusione della “proprietà digitale”. In effetti, molti titoli vengono venduti come se fossero beni permanenti, ma si rivelano legati a doppio filo al supporto online delle aziende. Quando questo viene meno, il gioco finisce. Letteralmente.
La proposta avanzata da Stop Killing Games non si limita a chiedere di mantenere attivi i server a oltranza, ma apre la possibilità a soluzioni alternative: fornire strumenti per consentire alla community di gestire autonomamente i server, oppure garantire il funzionamento delle campagne single-player anche in assenza di connessione.
Non tutti, però, accolgono con favore l’iniziativa. L’associazione Video Games Europe (VGE), che riunisce giganti del settore come Sony, Ubisoft, EA, Nintendo, Epic Games, Take Two e altri, ha espresso forti perplessità. Secondo VGE, leggi di questo tipo avrebbero un impatto devastante sui modelli di sviluppo, in particolare per i titoli live service e quelli basati interamente sull’esperienza online.
Le aziende, spiegano, decidono di interrompere il supporto solo dopo attente valutazioni economiche, e quando l’esperienza online non è più sostenibile. Inoltre, sostengono che garantire l’accessibilità ai contenuti anche dopo la chiusura ufficiale comporterebbe rischi legali e tecnici: le misure di sicurezza per proteggere i dati degli utenti e moderare i contenuti verrebbero meno, esponendo i publisher a responsabilità non trascurabili.
Il cuore del dibattito, in realtà, è culturale prima che giuridico. L’industria propone una visione in cui il videogioco non è più un bene acquistato, ma una licenza temporanea e revocabile. Un modello che si scontra con l’aspettativa – legittima – dei giocatori di poter accedere a ciò che hanno pagato. Non sorprende, quindi, che l’iniziativa abbia trovato ampio sostegno anche nel Regno Unito, dove una petizione parallela ha superato le 130.000 firme, aprendo la strada a un possibile dibattito in Parlamento.
Secondo le regole europee, la Commissione ha sei mesi per fornire una risposta ufficiale. Si apre così un iter che potrebbe culminare in un’audizione pubblica al Parlamento Europeo e, in prospettiva, in nuove leggi sulla conservazione digitale e sui diritti dei consumatori. VGE si dice disponibile al dialogo, ma il confronto si preannuncia lungo e articolato.
Una cosa è certa: con l’aumentare dei titoli “solo online” e delle piattaforme digitali, la questione non potrà più essere ignorata. Se Stop Killing Games riuscirà a trasformare la protesta in legge, potrebbe segnare una svolta storica nella tutela dei videogiocatori e nella definizione del concetto di “proprietà” nel mondo digitale.
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