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INTERVISTA DELLA SETTIMANA

Quaglieni: «Mi manca la mia vecchia Torino, ora servirebbe un turismo culturale»

Lo storico ripercorre gli anni della Torino dell'Avvocato e la lunga amicizia con Mario Soldati

Pier Franco Quaglieni

Pier Franco Quaglieni

Come si addice a uno storico di professione, Pier Franco Quaglieni nel suo ultimo libro – “Diario italiano. Figure del nostro tempo” - non dà giudizi. Guarda ai fatti con il distacco del tempo e la razionalità che si impone a chi compie un lavoro di analisi. Anche quando, raggiunto al telefono, osserva e commenta le trasformazioni vissute da Torino nell’ultimo secolo non si lascia andare a facili stigmate. «Mi manca la Torino degli anni ’60» ammette alla fine. «Era migliore, in tutti i sensi». Anche l’allora sindaco Amedeo Peyron «ha fatto grandi cose». E il sindaco in carica come lo giudica? «È presto per dirlo, sarebbe ingiusto. Un sindaco si può valutare solo quando non è più sindaco».


C’è molta Torino nel suo libro. Il primo personaggio che compare (per ordine alfabetico) è l’Avvocato. Cosa resta oggi dell’eredità di Agnelli?
«Poco o nulla. E lo dico con grande amarezza. Il mito dell’Avvocato è stato qualcosa di fondamentale per la storia della città, ma mi sembra che la stessa Fiat abbia preso altre direzioni. L’Avvocato pensava a una grande azienda internazionale, è vero. Ma avrebbe voluto il cuore e il centro propulsivo sempre a Torino. Invece c’è stato un divorzio tra l’azienda e la città. Però, intendiamoci, ha portato anche alcuni aspetti positivi».
In che senso?
«Torino era una città condizionata dalla Fiat in ogni suo aspetto. Si è liberata di questa presenza ingombrante. Qualcuno ha voluto vedere nel turismo un’alternativa all’industria dell’automobile. È stata solo utopia. O peggio, uno slogan propagandistico».
E, secondo lei, quale sarebbe l’alternativa giusta?
«Posto che gli storici guardano sempre al passato, non fanno profezie. Altrimenti sarebbero storici travestiti da politici. Forse valorizzando il profilo culturale della città si potrebbe ottenere un turismo più di èlite. Un turismo storico-culturale, diciamo».

Pier Franco Quaglieni


Parlando di cultura. Un altro personaggio raccontato nel suo libro è Piero Angela. Quest’anno è anche uscito nelle prove di maturità.
«È stato l’unico vero divulgatore dotato di rigore scientifico. Non banalizzava mai gli argomenti di cui trattava, ma riusciva a farsi capire. Trovo giusto tenerne vivo il suo ricordo tra i giovani: è una figura unica e ha avvicinato milioni di persone a discorsi scientifici. Noi viviamo una frattura tra cultura umanistica e scientifica. Piero Angela è riuscito a suturarala, superando pregiudizi e ignoranze individuali».
Tra le figure raccontate nel libro, a quale è più legato?
«Senza dubbio come storico sono debitore a Renzo De Felice, lo ritengo un vero maestro anche sotto il profilo personale. Ci ha insegnato a vedere il fascismo con distacco critico. Poi sono molto legato a Bianca Montale, storica del Risorgimento, con la quale ho avuto un lungo rapporto. Preciso che ho scelto questi personaggi in base a un criterio ferreo: aver fatto qualcosa di importante e significativo, al di là delle opinioni. Elogio Strada, ad esempio, ma sono anni luce lontano dalle sue idee».

Mario Soldati e Pier Franco Quaglieni 



Nei suoi libri precedenti ha parlato lungamente di Mario Soldati. Lui amava molto Torino. Oggi può essere una ispirazione?
«Aveva addirittura l’automobile targata Torino, pur abitando alla Cinque Terre. Tuttavia, nella sua opera c’è il rimpianto di una Torino che non c’è più. La amava e fingeva, forse, di non vederne i limiti. Poi non abitandoci più probabilmente tante cose non le vedeva davvero. Mi viene in mente un aneddoto. Eravamo usciti da un ristorante vicino a corso Unione Sovietica, in pieno inverno, e lui mi disse che come si respirava a Torino, non si respirava in nessun altro posto. In effetti, era un’aria altamente inquinata. Questa è la nostalgia. Idealizzava la Torino che aveva vissuto in giovinezza».
E lei, rimpiange la “vecchia Torino”?
«Senza dubbio. La Torino che io rimpiango è quella degli anni ‘50-60. Era una città migliore, sotto ogni punto di vista».
Nelle prime pagine del suo libro spiega che siamo ancora figli del ‘900. Ha senso oggi parlare di fascismo e antifascismo?
«Sono due concetti superati. Credo che se ne debba parlare in termini storici, con un certo distacco critico. Non dovrebbero essere argomento di lotta contingente. E invece lo sono, con tutte le conseguenze negative che questo comporta. Non si può continuare a vedere a cent’anni di distanza il fascismo come fosse qualcosa di vicino alla realtà odierna. È un fenomeno concluso».
Ci dica, ha già un altro libro in cantiere?
«Ho già dato alla mia collaboratrice, Luisa Millari – persona preziosa, che ringrazio moltissimo perché è riuscita a dare ordine a un disordinato – due capitoli per un nuovo libro, ma andiamo adagio. Ora c’è “Diario italiano”».

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