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INTERVISTA DELLA SETTIMANA
06 Novembre 2023 - 10:25
Sabrina Gonzatto
Del Piero? «Un bravissimo ragazzo, si impegnava molto». E Carolina Kostner? «Straordinaria, passava un esame dopo l’altro». Ripercorrendo gli anni tra i banchi del Cepu, Sabrina Gonzatto ricorda volti e nomi di studenti che l’hanno accompagnata lungo tutta la sua carriera. Una storia, quella della “signora dei granata”, che sembra legata a filo doppio al mondo dello sport. E a quello del calcio, in particolare. Un amore che risale ai tempi in cui, da bambina, andava allo stadio mano nella mano con il suo papà; e arriva fino a quando, ormai adulta, attraversò l’androne di corso Vittorio Emanuele 77 per entrare al Cepu. «C’era un albero di Natale bellissimo» ricorda e provò subito un senso di famigliarità. Era nell’ex sede del Torino di Pianelli.
Gonzatto, le dispiace se la chiamiamo la “signora del granata”?
(ride) «No, affatto».
Ci racconti del suo legame con il Torino.
«Non avrei potuto immaginare che il Toro sarebbe diventato poi così importante nella mia vita. È una fede che mi ha trasmesso mio papà. Lo seguivo sempre allo stadio. A quel tempo era il Comunale, oggi è il Grande Torino. All’epoca non era così diffuso che i bambini andassero allo stadio con i genitori. Poi io ero una femminuccia, può immaginare. In ogni caso era una cosa che mi legava a papà».
E poi crescendo ha coltivato la passione per il calcio?
«Sì, ho continuato ad andare allo stadio a vedere il Toro e, quando è cominciata la mia avventura in Cepu, il calcio è ritornato protagonista, questa volta con la Juve. Lavoravo a stretto contatto con “la triade”: Moggi, Giraudo e Bettega. Con Bettega, in particolare, abbiamo avviato una serie di iniziative legate al mondo della formazione. Da qui è nato anche il rapporto con Del Piero. Gli insegnavo inglese».
E com’era il Del Piero studente?
«Si impegnava moltissimo. Amava la musica e quindi io utilizzavo delle canzoni di rock inglese “impegnato” per appassionarlo. Scaricavamo i testi e facevamo le traduzioni. Era il periodo in cui si era fatto male al ginocchio ed era dovuto andare in Canada per essere operato. Ricordo che si era portato dietro i miei libri, gli appunti e le cassette per continuare a studiare».
Nel 2005 inizia a scrivere di calcio. Un testo dedicato al Toro, che poi è diventato anche uno spettacolo teatrale “Ma cos’era mai questo Toro?”. È prima di tutto una dichiarazione d’amore per suo padre?
«Sì, è sicuramente un testo molto autobiografico, in cui racconto il rapporto con mio padre e anche con il Torino. Nella comunità granata venivo considerata un po’ un’icona, perché non c’erano in quegli anni molte donne che scrivessero di Toro».
Il palazzo che ospitava gli uffici del Cepu fu prima sede del Toro. Lei crede nel destino?
«Mi ricordo che quel luogo aveva qualcosa di familiare fin da subito, ma non capivo cosa. Una volta tornata a casa ne parlai in famiglia e fu ancora una volta mio padre a farmi capire. Mi disse che quella era stata la sede del Toro di Orfeo Pianelli e che la prese subito dopo lo scudetto. Avevano rimesso tutto a posto, ma avevano lasciato per rispetto dei foglietti che riportavano i nomi dei calciatori».
Era un segno quindi?
«Penso di sì. Al punto che quando è stato creato il Toro Club dedicato a Pianelli ho organizzato una grandissima festa. Una “tre giorni” aperta ai tifosi granata. Cristina Pianelli, l’unica figlia di Orfeo, ha rimesso piede nella sede per la prima volta in quella occasione. Mi ricordo che si commosse. Quel momento per me fu davvero unico».
Lei scrisse anche una biografia di Pianelli.
«Dovevo mantenere una promessa fatta proprio alla figlia Cristina».
Ci dica di più.
«Un giorno la andai a trovare e le portai un mazzo di fiori e il mio primo libro sul Toro. Il giorno successivo fu lei a chiamarmi. Voleva chiedermi di scrivere un libro su suo padre. Io ero in difficoltà perché non lo avevo mai conosciuto, ma lei mi rassicurò e disse che mi avrebbe aiutato. Nel 2010 Cristina venne a mancare, ma io le avevo fatto una promessa e dovevo mantenerla. Quel libro, l’ho scritto per lei».
La scrittura – e l’arte in generale – sono l’altra grande passione della sua vita.
«È così. Prima scrivevo solo per lavoro. Non mi ero mai cimentata con la narrazione. In azienda mi sono occupata praticamente di tutto, ma c’è sempre stato questo secondo binario artistico che correva parallelo nella mia vita. Amo molto la scrittura e mi sono avvicinata al mondo del teatro attraverso mio marito, che di mestiere fa il regista. Mi ha chiesto lui di occuparmi di sceneggiatura. Io sono sempre stata una appassionata del settore, ma con lui ho potuto conoscere il dietro le quinte».
Come sta il mondo dello spettacolo torinese?
«C’è un teatro statale, lo Stabile, che funziona molto bene. E poi c’è un teatro privato che ha ripreso quota. Penso soprattutto all’Alfieri e al Gioiello, che hanno un nuovo imprenditore romano che ha coperto le spese di ristrutturazione del teatro. C’è anche un nuovo direttore artistico, Luciano Cannito. I programmi di quest’anno sono molto ricchi. Non dimentichiamo poi tutta la serie di teatri più piccoli e di giovani che stanno crescendo. Questa è sicuramente una buona notizia, perché il teatro fa molto bene alle persone. Io lo consiglio sempre ai bambini. Ai più timidi, soprattutto. A chi magari a scuola non riesce a fare amicizia».
Alla fine, torniamo sempre alla formazione. Arte e insegnamento si intrecciano?
«Sì. Pensi che io ho iniziato organizzando mostre d’arte quando ero ancora all’università. La settimana dell’arte di Torino è la mia preferita in tutto l’anno. E fra poco arriva anche il tennis».
Gioca a tennis?
«Ho sempre giocato. Sono molto contenta per la qualificazione di Sinner alle Atp Finals. Lo seguo fin dai suoi primi passi nel mondo del tennis e sono molto felice che sia arrivano fin qui».
A proposito di personalità che hanno incrociato - in una delle tante forme - la sua carriera, cosa può dirci di Carolina Kostner?
«Carolina si è trasferita nel 2004 a Torino e si è iscritta all’Università. Noi di Cepu la abbiamo aiutata nel suo percorso. I docenti erano molto felici, perché lei era bravissima e dava grandi soddisfazione. Anche lei è stata testimonial per Cepu».
Non solo personaggi noti. Al Cepu sono passati in tantissimi. Come era vista l’università telematica quando ha iniziato?
«Quando sono entrata al Cepu non sapevo come farne capire l’utilità all’esterno. Molti erano prevenuti, ci guardavano un po’ storto e pensavano che da noi venissero solo le persone che non erano in grado di preparare un esame per conto proprio. Non è così. Cepu dispone di professionisti eccezionali. Soprattutto all’inizio aiutavamo chi lavorava e non aveva la possibilità di seguire le lezioni. Noi ci siamo inseriti in quel gap dell’Università Statale».
Qual è la ricetta del successo?
«Sicuramente il lato umano. Spesso nelle grandi strutture “tradizionali” manca proprio questo aspetto. Le persone hanno bisogno di qualcuno che le ascolti, che abbia il tempo di stargli vicino e che li corregga se sbagliano».
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