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L'INTERVISTA DELLA SETTIMANA
03 Marzo 2024 - 11:00
Stefano Buono
Non ha paura delle sfide, Stefano Buono, amministratore delegato delle Newcleo, startup che sviluppa piccoli reattori nucleari di ultima generazione. È dal 1994 che insegue il sogno di un nucleare pulito, sicuro, riciclabile e ora sembra a un passo dal raggiungere l’obiettivo. Fondata nel 2021, la sua Newcleo ha già raccolto 400 milioni di capitale e, entro l’anno, punta a diventare “unicorno” e infrangere il tetto di cristallo del miliardo. Se l’affare andasse in porto, la Newcleo sarebbe il terzo unicorno italiano. Il primo nel campo dell’energia.
«Torino è un’ottima città dove investire e innovare» ci racconta il gigante (in tutti in sensi) del nucleare. Avellinese di nascita, Buono si è trasferito in città all’età di 7 anni, in seconda elementare. Qui ha frequentato il liceo scientifico Galileo Ferraris e poi la facoltà di Fisica. Per scrivere la tesi è volato al Cern di Ginevra (il più grande laboratorio al mondo di particelle) e, da lì, in America. «Sono tornato perché volevo fare qualcosa per Torino e per l’Italia». La sfida c’è. «I nuovi reattori nucleari potrebbero essere pronti in circa tre anni».
Buono, lei vuole cambiare il mondo?
(sorride ndr) «Ho sempre voluto farlo. Questa volta forse ci riesco».
Cos’hanno di diverso i suoi reattori rispetto a quelli del passato?
«Hanno alle spalle 80 anni di esperienza industriale in più. Questo ha permesso di creare delle centrali intrinsecamente sicure. I nuovi reattori si spengono da soli, anche senza l’intervento umano e senza danneggiarsi».
Eppure, tanti hanno ancora paura quando si parla di nucleare.
«La storia, se analizzata correttamente, ci fa capire che anche l’industria nucleare del passato rappresentava il modo più sicuro di produrre energia».
In che senso?
«Ci pensi, in assoluto il nucleare ha prodotto meno perdite di vite umane, a parità di energia prodotta. Considerando poi le caratteristiche dei nuovi reattori, le paure dovrebbero scomparire. Ma capisco che il processo sia lento. Sicuramente i giovani sono più predisposti a capire che non c’è pericolo nelle centrali di nuova generazione».
L’esigenza di decarbonizzare ha riavvicinato persone e governi al nucleare?
«È stata la prima spinta verso quello che chiamo il “Rinascimento nucleare”, che è in atto da due o tre anni».
La guerra in Ucraina ha fatto il resto.
«La guerra ha risvegliato la necessità dell’Europa di ritagliarsi una sua indipendenza energetica. Abbiamo visto da vicino quanto siamo dipendenti dall’estero e quanto siamo, di fatto, deboli a livello industriale. Sono tutti elementi che hanno portato a comprendere meglio il valore del nucleare».
Secondo lei il governo italiano sta facendo abbastanza per agevolare la produzione di energia nucleare?
«Credo che il governo stia facendo i passi giusti. È necessario concentrarsi sulla tecnologia da utilizzare e anche sulla riscrittura delle leggi e dei regolamenti di cui c’è bisogno per avere le autorizzazioni. Oggi il nostro Ente Regolatore non avrebbe la capacità di rispondere alle domande, anche solo per mancanza di personale adeguatamente formato».
C’è poi la questione dello smaltimento dalle scorie.
«È un “non-problema”. Non ci sono mai stati incidenti legati ai rifiuti radioattivi. In ogni caso, le abbiamo praticamente eliminate dal nostro ciclo di produzione. Per semplificare possiamo dire che le ricicliamo. Di fatto, in un ciclo relativamente breve di tempo, la radio attività sparisce, dopo aver ceduto l’energia. Così abbiamo realizzato uno dei sogni dell’industria nucleare degli anni ‘70».
Anche in questo caso la domanda è una: come avete fatto?
«La scelta del piombo come tecnologia di base ci ha aperto la possibilità di tornare a quell’obiettivo con più sicurezza e meno costi».
Le nuove centrali costano meno?
«I reattori sono sicuramente meno costosi e questo li rende più favorevoli a un investimento privato. Piccoli reattori rappresentano piccoli investimenti e possono essere potenzialmente costruiti nel giro di tre anni».
Di che cifre stiamo parlando?
«Un reattore di taglia importante, da 200 Megawatt elettrici, potrebbe costare circa 800 milioni di euro. Il ritorno sull’investimento è conveniente. La possiamo paragonare a una grande nave. Forse anche meno complessa».
Il paragone non è casuale. Sappiamo che è appassionato di barche e mare.
«È vero, ho fatto metà giro del mondo in barca prima di creare la Newcleo. Sono arrivato solo fino ad Haiti, poi mi sono fermato perchè era tutto chiuso per la pandemia. Completo il viaggio a tappe, di estate in estate».
Non la spaventano le sfide. Si sente più imprenditore o più scienziato?
«Imprenditore. Le nozioni scientifiche che ho sono riscontrabili in molte altre persone. L’approccio imprenditoriale è più raro».
Già ai tempi della scuola aveva avviato un mercato di libri usati per le scuole superiori di Torino. Ha sempre avuto una predisposizione per gli affari.
«Sì, ho sempre fatto attività di questo tipo. A Ginevra avevo anche un negozio di attrezzatura da sub».
Torino e una buona città in cui investire?
«Ottima. C’è un tessuto industriale che deriva dall’esperienza dell’automotive e che crea un punto di partenza avvantaggiato per chi vuole fare innovazione. I torinesi e i piemontesi poi sono lavoratori molto seri. E hanno anche molti soldi. Potrebbero investire di più (ride ndr). Lo stanno già facendo».
Parlando di auto, pensa che il nucleare pulito possa aiutare la transizione energetica anche nell’automotive?
«Le auto elettriche hanno bisogno di elettricità e il nucleare è fondamentale per aumentarne la produzione, senza far crescere la Co2. Quindi, in senso indiretto, direi proprio di sì».
Come ha convinto gli Elkann a investire con lei?
«Con la bontà dell’azienda e dell’idea».
Come vi siete conosciuti?
«John ha finanziato un importante operazione di ampliamento al Cern di Ginevra. Una bellissima opera di Renzo Piano per estendere le capacità divulgative del Cern. Ci ha presentato la direttrice generale del Centro. Da lì è nata un’intesa, da cui è derivato poi un investimento».
Non è la prima volta che scommette sui nuovi reattori. Dal 1994 al 2002 stava già lavorando al progetto insieme a Carlo Rubbia. Com’è stato collaborare con un premio Nobel?
«Molto interessante da ogni punto di vista. Sia per l’arricchimento scientifico, che per lo sviluppo del mio lato più ambizioso. Mi ha fatto capire, già nel ‘94, che potevamo cambiare il mondo. Con un po’ di ritardo forse ora ce la facciamo».
In ogni caso, non ha perso tempo. Il suo nome è legato anche alla medicina nucleare.
«Dal 2002 al 2018 ho sviluppato una azienda che ha trasformato radicalmente la medicina nucleare. Prima era utilizzata praticamente solo in diagnostica. Oggi invece esistono terapie molto efficaci che vengono fatte con isotopi radioattivi».
In cosa consistono?
«Inizialmente erano terapie che venivano utilizzate per il cancro alla tiroide, poi abbiamo sviluppato l’idea di portare la radioattività dentro il tumore per curare in modo metabolico. Abbiamo prodotto alcuni tra i farmaci più efficaci nella storia dell’oncologia per i tumori neuroendocrini. Questa è stata la chiave del successo. Ora la stessa azienda ha prodotto un altro farmaco molto importante per la cura del cancro alla prostata. Sono due super prodotti».
Quanto valgono?
«Uno un miliardo il primo. Otto l’altro».
Avete aperto la strada.
«Abbiamo dimostrato quanto l’atomo possa fare cose positive per l’umanità. Non solo decarbonizzare, anche curare».
Il progetto è chiaro. C’è un punto di debolezza?
«La paura. La narrativa del passato sul nucleare ha influenzato la rapidità con cui viaggia questo tipo di innovazione sul mercato».
I francesi hanno meno paura di noi?
«Non hanno mai rifiutato il nucleare. Anche se nel 2012 il governo ha deciso di ridurre la quantità di reattori sul territorio. La copertura della produzione elettrica doveva passare dal 78% al 50%. Macron ha invertito questa tendenza, annullando quella legge e ha rilanciato sul nucleare con obiettivo al 2050».
In Italia, entro il 2050, avremo dei reattori?
«Assolutamente sì. È inevitabile».
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