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Il caso

L’Università di Torino inciampa nella polemica Israele-Palestina

Quando la cultura cede alle pressioni politiche

Università degli Studi di Torino (Fonte Ansa)

Università degli Studi di Torino (Fonte Ansa)

L’Università di Torino ha recentemente segnato un brutto precedente nell’ambito accademico italiano, diventando il primo ateneo a sospendere le collaborazioni con le istituzioni accademiche israeliane. Tale decisione, scaturita in risposta alle pressioni esercitate da gruppi studenteschi di sinistra, solleva interrogativi profondi sulla natura e sui valori fondamentali dell’istituzione universitaria. Al centro della contesa, una mozione votata dal Senato Accademico, che ha posto fine alla partecipazione a un bando per la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele, citando la situazione di guerra a Gaza come motivazione. 

La giornata di proteste, iniziata sotto i cori di “Palestina libera”, ha visto gli attivisti di Cambiare Rotta e Progetto Palestina interrompere la seduta del Senato con striscioni e bandiere, esigendo, sarebbe più corretto dire imponendo, un netto distacco dall’accordo con Israele. Le loro rivendicazioni si fondano sulla preoccupazione che i finanziamenti previsti possano essere impiegati per sviluppare tecnologie dual-use, ossia utilizzabili tanto in ambito civile quanto militare, ovviamente la richiesta, speciosa, è quantomeno ridicola in quanto,si sa, che tutte le tecnologie frutto di ricerca scientifica possono avere applicazioni militari,non per questo si dovrebbe rinunciare alla ricerca.La richiesta degli attivisti è stata chiara: l’Università non deve diventare complice di quello che considerano un genocidio, mantenendo il mondo accademico libero da legami con la violenza: un capolavoro di ipocrisia e di ignoranza pseudomoralistica, in salsa antisemita.

Questa minoranza di “studenti” che si sono arrogati il compito di essere i guardiani della linea sulla ricerca dell’ateneo torinese sono spalleggiati da circa 1700 professori di università italiane (su 60.000) che hanno diffuso la nota che fa da supporto politico alle iniziative degli attivisti filopalestinesi nelle università. Ovviamente nessuna parola di condanna per gli omicidi e gli stupri di hamas. Intanto gli attivisti filopalestinesi hanno innescato, in attività presumibilmente coordinate, altre azioni di pressione e di “protesta”in altre università. 

Le reazioni dei membri del Senato Accademico a Torino, descritte come un silenzio che voleva preludere a una discussione “al momento opportuno”, rivelavano una certa reticenza nel confrontarsi immediatamente con le richieste studentesche. Questa apparente indecisione ha spinto gli studenti a richiedere, con metodi degni ed adeguati ad altri luoghi, una partecipazione attiva nel processo decisionale, culminando in una capitolazione del senato accademico che , con pavida rassegnazione, ha  nel pomeriggio votato di non partecipare al bando Maeci, che prevedeva la collaborazione con le università israeliane. 

Nonostante l’enfasi posta sulla libertà di ricerca e insegnamento come valori costituzionali fondamentali, il Senato ha ceduto alle pressioni, votando una mozione che effettivamente sospende ogni nuova collaborazione con Israele. Questa decisione, accolta come una “vittoria del dialogo”(sic!) da alcuni docenti, suscita però interrogativi sulla sua reale efficacia nel promuovere i valori di pace e comprensione attraverso la ricerca e l’educazione. 

L’accondiscendenza, per molti osservatori viltà, dimostrata dai membri del Senato Accademico nel cedere al diktat degli attivisti filopalestinesi mette in luce un pericoloso precedente per l’ambiente accademico: l’università, tradizionalmente bastione del confronto aperto e della ricerca senza confini, rischia di diventare teatro di imposizioni e boicottaggi. Questa evoluzione minaccia di soffocare il dibattito intellettuale e di compromettere l’autonomia e la libertà accademica, pilastri fondamentali su cui si fonda l’istituzione universitaria. 

In questo scenario, è fondamentale riflettere sul ruolo dell’università nella società moderna. Deve l’università piegarsi alle pressioni politiche esterne, o dovrebbe invece rimanere un luogo neutrale dove si persegue la conoscenza attraverso la ricerca, il dialogo e lo scambio di idee? La risposta a questa domanda, se si vuole retorica, definirà il futuro dell’educazione superiore e il suo contributo alla costruzione di una società più giusta e democratica, occorrerrà solo un po’ più di coraggio da parte dei professori. Ma si sa, come ci insegna il Manzoni, il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare. 

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