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L'artista all'Accademia Albertina
23 Giugno 2024 - 06:00
Per molti critici le opere della controversa artista non sono vera arte ma show di contenuto sociologico teatrale.
E anche a Torino, città che negli ultimi anni si è fatta un nome per l’arte contemporanea, non poteva mancare l’intervento di Marina Abramovic. Ospite dell’Accademia Albertina terrà una Lectio Magistralis e riceverà il diploma “honoris causa” dall’Istituzione. Ma non tutti i giudizi e le critiche sono concordi sulle azioni e le opere della performer serba.
Marina Abramovic è spesso celebrata come una pioniera della performing art, un’icona che sfida i confini dell’espressione artistica e umana. Tuttavia, dietro la patina di audacia e innovazione, le sue performance si rivelano, per molti critici, più come esperimenti sociologici teatrali che come autentiche opere d’arte. Critici autorevoli e osservatori attenti hanno sottolineato come le opere di Abramovic siano in realtà costruite a tavolino da una potente lobby del mercato dell’arte internazionale, composta da critici, galleristi e mercanti che, per meri fini speculativi, forgiano personaggi e tendenze per influenzare il mercato a scapito di istituzioni e collezionisti sprovveduti.
La prima performance “Rhythm 0”, svoltasi a Napoli nel 1974, è un esempio lampante di questa dinamica. In quella occasione, Abramovic si pose come oggetto inanimato, lasciando che il pubblico agisse su di lei senza limiti, utilizzando 72 oggetti che spaziavano da quelli in grado di procurare piacere a quelli potenzialmente letali. Questo esperimento, che mirava a dimostrare la brutalità umana, si è spesso presentato come un atto di coraggio e un esempio di vera arte. Tuttavia, esaminando attentamente i dettagli, si rivela come una provocazione calcolata, destinata a suscitare reazioni estreme e, conseguentemente, attenzione mediatica.
Secondo il critico Michael Kimmelman del New York Times, «il lavoro di Abramovic è più vicino a un esperimento psicologico che a un’opera d’arte. È progettato per manipolare le emozioni del pubblico e provocare reazioni, piuttosto che per comunicare una visione artistica autentica» . Questo giudizio critico mette in discussione la vera natura delle sue performance, evidenziando come esse sfruttino l’elemento shock più che la sostanza artistica.
Un altro aspetto fondamentale delle critiche rivolte a Marina Abramovic riguarda il ruolo delle lobbies del mercato dell’arte nel promuovere la sua figura. Secondo la storica dell’arte Sarah Thornton, autrice di “Seven Days in the Art World”, il successo di Abramovic è il risultato di una perfetta sinergia tra artisti, galleristi e critici che lavorano insieme per creare fenomeni di mercato artificiali. Thornton evidenzia come queste dinamiche influenzino non solo la percezione pubblica dell’arte, ma anche le decisioni di istituzioni e collezionisti, spesso ignari delle manipolazioni dietro le quinte.
E l’effetto è evidente nei prezzi astronomici raggiunti dalle opere di Abramovic e nella sua onnipresenza nei principali eventi artistici internazionali. Tuttavia, come sottolinea l’artista e critico Robert Hughes, «la mercificazione dell’arte performativa di Abramovic dimostra come l’arte contemporanea sia diventata una merce, un prodotto che viene venduto e acquistato come qualsiasi altro bene di lusso». Hughes critica aspramente questa tendenza, sostenendo che l’arte dovrebbe essere valutata per la sua capacità di comunicare e ispirare, non per il suo valore di mercato.
Inoltre, molte delle performance di Abramovic sono state criticate per la loro natura ripetitiva e prevedibile. Secondo il critico d’arte Jerry Saltz, «le opere di Abramovic, una volta innovative, sono diventate formule riciclate che sfruttano la curiosità morbosa del pubblico. Non c’è nulla di nuovo o autentico nelle sue esibizioni; sono semplicemente versioni aggiornate degli stessi vecchi trucchi» . Saltz sottolinea come le performance di Abramovic manchino di profondità e innovazione, riducendosi a semplici spettacoli destinati a scioccare piuttosto che a far riflettere.
La critica più radicale arriva forse dal suo ex compagno ed ex collaboratore, l’artista Ulay, che in diverse interviste ha espresso il suo disappunto per la direzione presa dalla carriera della sua ex partner. Ulay ha affermato che «Marina ha tradito l’essenza della nostra collaborazione, trasformando la performance art in un circo mediatico. Quello che una volta era un genuino tentativo di esplorare i limiti dell’umano è diventato uno show senz’anima, finalizzato unicamente a mantenere alta la sua quotazione nel mercato dell’arte» . E sono tali quotazioni che le hanno permesso di possedere 16 imbarcazioni, come ha riportato nel 2023 la rivista Forbes.
L’operazione di marketing dietro Abramovic è evidente anche nei prezzi esorbitanti delle sue opere e nelle esposizioni in musei di prestigio. Questo fenomeno è il risultato di un mercato dell’arte manipolato da una élite di critici e galleristi, interessati più al profitto che alla qualità artistica. Gli stessi meccanismi che hanno portato Abramovic alla ribalta sono quelli che, secondo il critico Renato Barilli, «creano bolle speculative e distolgono l’attenzione dalle vere espressioni artistiche».
Alla luce di queste critiche, appare chiaro che la fama di Marina Abramovic sia anche il prodotto di un’abile costruzione mediatica e mercantile, piuttosto che il risultato di un’autentica innovazione artistica. Le sue performance, pur suscitando reazioni intense, mancano di quella profondità e originalità che caratterizzano le vere opere d’arte. “Mestruazioni, masturbazioni, emicranie” è il titolo del terzo paragrafo della sua autobiografia, ma sono anche i temi stanchi di talune sue “opere”. In un mondo dell’arte sempre più dominato da logiche di mercato e dinamiche speculative, è essenziale riconoscere e denunciare queste distorsioni, per proteggere l’integrità e il valore dell’arte.
In conclusione, se, come detto, le performance di Marina Abramovic rappresentano per molti una originale forma d’arte, mentre per altri la sua “performance and body art” è più un fenomeno mediatico e commerciale che un autentico contributo artistico (e per costoro sono il frutto di una complessa operazione di marketing orchestrata dalle lobby del mercato dell’arte), è necessario un dibattito critico e approfondito per smascherare queste dinamiche. È tempo di riconoscere la differenza tra vera arte e semplici provocazioni, e di restituire all’arte il suo vero valore, libero dalle manipolazioni di un mercato opaco.
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