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Fenomenologia di una contestazione

Val di Susa, ecco cos'è davvero il movimento No Tav (e perché ci costerà caro)

I guai di un territorio fra industrializzazione, frange di violenza, ruolo dei sindaci e la lobby del trasporto su gomma

Val di Susa, ecco cos'è davvero il movimento No Tav (e perché ci costerà caro)

In Valle di Susa, terra con una storia millenaria, la questione del Tav (Treno ad Alta Velocità) rappresenta una ferita aperta. Questo progetto, che dovrà collegare Torino a Lione, è divenuto simbolo di uno sviluppo contestato, in un territorio che sembra ancorato a logiche preindustriali e a timori atavici. Ma qual è il motivo di questa resistenza, che spesso sfocia in scontri con le forze dell’ordine e che ha generato un movimento noto come No Tav? Perché una parte ancora consistente della popolazione, soprattutto nella bassa Valsusa, si oppone così strenuamente?

La questione dell’alta velocità in Valle di Susa è diventata un simbolo di una lotta più profonda, che va oltre le preoccupazioni tecniche e ambientali. Dietro le bandiere e le manifestazioni No Tav si nascondono le paure ancestrali di una parte della popolazione che vede il progresso come una minaccia esistenziale. È opportuno comprendere appieno le radici di questa opposizione e necessariamente esaminare le dinamiche sociali ed economiche che hanno plasmato la Valle di Susa nel corso degli ultimi decenni. Per conoscere la matrice di questa opposizione, bisogna scavare nella storia sociologica e culturale della valle. La Valle di Susa, che inizia da Chiusa San Michele, antico confine tra il regno dei Longobardi e quello dei Franchi, come anche il Manzoni ci ricorda nell’Adelchi, è caratterizzata da una miriade di piccoli comuni, molti dei quali contano poche centinaia di abitanti. Questa frammentazione demografica rende la presa del clero, storicamente influente, ancora molto forte. Il clero locale, molto anziano, ha spesso visto nel mutamento dovuto alla crescita tecnologica un nemico della tradizione. Il Tav, emblema di questo progresso, è percepito come una minaccia alla tranquillità della valle e alla sua identità culturale. Sostiene l’idea che il progresso porti con sé una violenta secolarizzazione con la conseguente perdita dei valori tradizionali. Il TAV, in questa descrizione, diventa l’emblema di una modernità pericolosa da cui proteggere la comunità.


La deindustrializzazione ha giocato un ruolo cruciale nel plasmare l’attuale tessuto sociale della valle. Alla fine degli anni sessanta, il fallimento del cotonificio Vallesusa segnò l’inizio di un declino industriale che ha eroso la classe e la cultura operaia locale. La chiusura di molte fabbriche ha causato non solo la perdita di fonti di reddito ma anche la perdita di un simbolo di identità. Questo disfacimento economico ha alimentato il senso di smarrimento e la sfiducia nelle istituzioni, che non sono state in grado di offrire soluzioni adeguate. La percezione di essere stati abbandonati ha rafforzato la resistenza al cambiamento, vista come l’ennesima imposizione dall’alto. Il TAV, in questo contesto, viene percepito non come un’opportunità di sviluppo, ma come una minaccia che potrebbe portare ulteriori disagi. Oggi, l’economia della bassa valle è dominata da attività agricole residuali e da un terziario frammentato, composto principalmente da dipendenti comunali, dipendenti pubblici e parapubblici, piccoli professionisti, artigiani e commercianti. Questo contesto economico ha contribuito a un senso di abbandono e di sfiducia verso le grandi opere infrastrutturali, percepite come inutili e dannose.

Nell’alta valle, al contrario, il terziario, soprattutto turistico, ha avuto grande sviluppo grazie alla vicinanza e alla facilità di trasporto con il grande bacino di utenza potenziale della città di Torino. Tuttavia, la questione del Tav ha trovato terreno, anche se meno fertile, anche qui alimentata da una narrazione che vede il progetto come una minaccia all’ambiente e al turismo, nonostante le promesse di sviluppo economico e le compensazioni economiche che i vari governi succedutisi hanno promesso ed erogato fino ad oggi ai comuni interessati.

Una delle peculiarità del cosiddetto movimento No Tav è la sua capacità di organizzare resistenza attiva e scontri con le forze di polizia, costrette a presidiare i cantieri per la costruzione della ferrovia. Questo è in buona parte dovuto al sostegno di taluni “centri sociali” torinesi, che, pur formalmente “progressisti”, in Valle di Susa adottano una retorica e delle iniziative che richiamano le rivolte preindustriali di fine Ottocento. Una specie di neoluddismo che si manifesta attraverso azioni e argomentazioni, spesso prive di solide basi scientifiche, come la presenza di amianto, l’antieconomicità, il deterioramento della bellezza della valle, ecc. Un altro aspetto controverso è il ruolo delle istituzioni locali e dei sindaci, molti dei quali si sono schierati con i No Tav. Paradossalmente, sono gli stessi che in passato hanno concesso licenze edilizie e permessi di edificazione che, per la loro banalità e bruttezza, hanno contribuito alla deturpazione del paesaggio valsusino.
Oggi, questi sindaci forniscono supporti logistici per campeggi e manifestazioni, ospitando attivisti ed estremisti da tutta Italia. Questi ultimi contribuiscono a creare una massa critica per azioni di propaganda e per sostenere scontri con le forze dell’ordine.

Inoltre, non si può ignorare l’influenza della lobby del trasporto delle merci su gomma, supportata dai giornali di proprietà degli industriali dei mezzi di trasporto. La società di gestione dell’autostrada Torino-Bardonecchia, alcuni dei cui dirigenti sono apertamente schierati contro la ferrovia ad alta velocità, ha realizzato un tunnel parallelo al traforo del Frejus. Questo ampliamento, giustificato con presunti motivi di sicurezza e manutenzione, è in realtà pronto per essere utilizzato in vista delle chiusure periodiche del traforo del Monte Bianco, destinate a durare oltre un decennio. La prospettiva di un ulteriore aumento del traffico di TIR verso la Francia, con il relativo aumento dell’inquinamento e degli introiti dei pedaggi autostradali, e della tassa, molto salata e di sapore medievale, per il passaggio del tunnel del Frejus getta ulteriori ombre sulla questione.
Questa situazione crea un terreno di coltura per una retorica di opposizione alla crescita, che trova eco nelle paure di un futuro incomprensibile e minaccioso. La lotta contro il Tav è una battaglia di retroguardia, ma con potenziali costi economici e sociali altissimi. La fiducia nel futuro, elemento imprescindibile per lo sviluppo di qualsiasi società, rischia di essere la prima vittima di questa contesa. Il movimento No Tav rappresenta, in ultima analisi, un rifiuto del cambiamento alimentato da un insieme di fattori politici, culturali ed economici. È una resistenza che non guarda solo al presente, ma che è anche radicata nel passato, nella nostalgia per un’epoca che non esiste più. È una battaglia che strumentalizza politicamente le paure e le speranze di una comunità che si sente minacciata da una ferrovia, ma che al contempo non può ignorare la necessità di evolversi per non restare indietro.

La questione del Tav è dunque molto più di un semplice dibattito su un’infrastruttura. È un esempio lampante di come il progresso possa incontrare resistenze profonde, radicate non solo in questioni tecniche o ambientali, ma anche in dinamiche sociali e culturali complesse. Quella dei No Tav è una battaglia destinata a sicura sconfitta, ma che rischia di lasciare sul terreno molte vittime, la prima delle quali è la fiducia nel futuro. Un costo che nessuna società può permettersi di pagare a cuor leggero.

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