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Politica & Personaggi

In memoria di un patriota: Franco Petronio nel trentennale della sua scomparsa

Quell'antieroe di una intera generazione che amava la politica. Dalla morte scampata a Triste all'Europarlamento per una destra moderna

In memoria di un patriota: Franco Petronio nel trentennale della sua scomparsa

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Trieste, novembre ’53

Il 3 novembre di quell’anno gli inglesi osano sfidare gli umori di gente di cui non avevano ben compreso il carattere. Convinti di poter garantire lo status di una Trieste divisa col righello da qualche geometrucolo anglosassone incurante delle radici della comunità, ammainano e sequestrano la bandiera italiana esposta in Comune e poi attaccano, sparano e colpiscono chi protesta, ammazzando Pietro Addobbati, un quindicenne zaratino, e altri 5 triestini che la vogliono orgogliosamente issare di nuovo. Una folla immensa si solleva contro gli sgherri inglesi che sostengono le ragioni dell’alleato comunista Tito, che pretende sovranità su territori da secoli italiani. Il giovanissimo Franco Petronio, nato a Trieste, alto biondo occhi azzurri, non può stare a guardare. Inizia a guidare la rivolta, a esaltare l’italianità e a diventarne uno dei simboli. Era molto amato. Dagli Italiani. Invece gli inglesi, per toglierselo dai piedi, pensarono bene di condannarlo a morte. Per fortuna spuntano ambienti missini legati a Pino Romualdi che mobilitano i loro simpatizzanti che lavorano alle ferrovie. Franco viene impacchettato, legato sotto una carrozza del treno e, scendendo alla stazione Termini dopo un confortevole viaggio di molte ore vista binari, porta in salvo la pellaccia.

L’approdo alla fiamma

Confessiamocelo. Anche se 20 anni dopo ci tracciava orizzonti politici, seppur combattivi, sempre improntati a tangibile concretezza, di intemperanze anche lui ne sapeva ben qualcosa: affrontare i proiettili dei nuclei antisommossa anglo-americani, schierati a tutela degli slavi titini, non era proprio una passeggiata. E lui non era certo uno da doppiopetto: diciamo che era una testa calda ma, tutto sommato, “ragionevole”, nel solco di un uomo vissuto a cavallo delle più seducenti contraddizioni che riempiono l’animo di chi crede in qualcosa. Aveva una personalità molto marcata e un’inconsueta capacità di osservare la realtà. Tutto con il fine di dedicare, senza alcuna retorica, la propria vita alla patria. Ben presto si convince che ciò che incarna meglio i suoi ideali sia la stessa ragion d’essere del Movimento Sociale Italiano.

Figure Storiche del Partito - Movimento Sociale Italiano (movimento-sociale-italiano.org)

Romualdi lo adocchia, comprende le sue doti, se ne innamora paternamente, lo rende suo figlio putativo. Beh, ricordiamoci che Pino Romualdi fu un leader di enorme carisma nel MSI: divenuto a soli trent’anni vice segretario nazionale del PFR (Partito Fascista Repubblicano) con Pavolini segretario, conclusa la guerra trattò con successo con Togliatti l’amnistia per i fascisti della RSI offrendo in cambio il voto referendario - contro la monarchia - dei suoi elettori (peraltro scontato, esemplare operazione win-win). Tutti sapevano in ovattato silenzio che era figlio naturale di Benito Mussolini, di cui ereditò i tratti e l’intelligenza politica. Questa gli fa prontamente intendere le grandi doti di Petronio.

Ripartiamo dal principio

A Trieste il nostro divenne dunque un soggetto temuto ma soprattutto ammirato. Dopo 20 anni, nei primi ’70, subito prima di un comizio del MSI, lo affiancavamo nel centro storico per raggiungere piazza e palco. Noi eravamo già allora i suoi acritici scudieri e lo consideravamo, senza bisogno di pennacchi, il nostro capo. Ma quando vedemmo decine di piacenti triestine 40enni che, affacciate alle loro finestre o dai loro balconi neoclassici, gli gridavano «Franco! Forza Franco! Petronio torna a Trieste! Franco vai avanti!», dopo aver capito che erano le diciottenni del 1953, quando il biondino trascinava e incantava la città, il nostro attaccamento a questa icona dell’italianità si trasformò davvero in una venerazione che ancor oggi ci scalda la coscienza di vecchi militanti. Bene, il giovane Petronio sbarca infine nella capitale, siamo agli inizi degli anni cinquanta, lui è il pupillo di Romualdi, tutto il partito inizia a conoscerlo. Lo mettono a capo degli universitari e si inventa progetti, traguardi, nuove idee, azioni e iniziative mai viste. Un performer alla pari di Marina Abramovic, Cattelan, Sgarbi, calato non nell’arte e nella letteratura ma nella creatività politica. Un Bruno Keller che da Fiume, dopo aver vuotato il pitale su Montecitorio, placidamente plana sull’ Altare della Patria immaginando altre patriottiche provocazioni. E, anche lì, Franco si mantenne come custode della tradizione ideale della destra, senza indulgere a fughe in avanti pre o post sessantottesche: l’ago della sua bussola fu sempre orientato a destra. Certo, è quello stesso Petronio che voleva impartirci anni dopo lezioni di moderatismo politico (soprattutto sulle vecchie simbologie che, d’altronde, anche noi come lui volevamo storicizzare, pur senza disconoscere nulla). Ma era pur sempre quello che andò davanti alla Statale a sfidare Mario Capanna, l’allora capo comunista degli sprangatori armati di Hazet 36, tra i quali si annidavano anche quei violentissimi soggetti che al grido di «uccidere un fascista non è un reato», mandarono al Creatore il diciassettenne Ramelli.

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La mensa dei poveri

Del tutto innegabile è che fosse un elemento piuttosto esagitato, come tutti i giovani. Era pure un bel ragazzo, la nobiltà nera romana di contesse, duchesse, nobilastre non troppo anziane lo adorava. Lui, che era il cervello, e Gionfrida, detto «er gatto», romanaccio simpatico e affascinante, che era il braccio. Sì, era il braccio pur avendone perso uno innescando una bomba a mano subito dopo la guerra. E quando veniva a pranzo con noi si svitava senza problemi la protesi e ce la metteva sul tavolo, tra una carbonara e le puntarelle, col moncherino in bella mostra: è sempre rimasto così, Mario il gatto. Con Franco impazzavano nei salotti bene: la strana coppia, due giovani seducenti, brillanti, coraggiosi. Petronio spopolava, ospite di ville, appartamenti ultra lussuosi, servito da maggiordomi, accolto da piacenti signore. Una di queste, che aveva perso la testa per lui e che lo faceva dormire in villa sull’Appia antica sotto il suo baldacchino di ricchissima vedova, un giorno gli chiese: «Dài, portami in uno dei ristoranti dove vai tu quando non ci sono!». Lui non se lo fece ripetere, decise di comportarsi sfrontatamente e, beffardo, se la portò nell’unico posto che poteva permettersi di frequentare da solo: la mensa pubblica. Lei restò di stucco e, raccontò Franco, si stupì non tanto del luogo o del cibo, ma del fatto che le posate erano legate ai tavoli con apposite catenelle antifurto. La dama dissimulò l’irritazione e lui seppe consolarla nelle dovute maniere.

Continuiamo. Da Roma a Parigi

Allora il Segretario nazionale era Arturo Michelini ma Romualdi, ed anche Almirante, non ci andavano troppo d’accordo. Cosa fa allora, il nostro Petronio? Organizza un nutrito gruppo di giovani missini e va a fare in piena notte una bella festa sotto casa di Michelini, con grandi bevute e tanto di gioiosa serenata alle figlie del Segretario, che ovviamente a quell’ora dormiva. Canta, ridi, bevi, urla, balla. Le ragazze, si disse, gradirono l’omaggio. Invece il padre, malauguratamente di antiche vedute, non apprezzò affatto il dileggio e avrebbe voluto cacciarli tutti dal Partito. Ma sì, ma no, alla fine si trova il compromesso: Petronio, testa fina, bella cultura, scrive pure bene, viene spedito a Parigi a fare il corrispondente del Secolo d’Italia. Parigi? Ma non è una punizione, non è un esilio, penserete! È un premio, chi non lo capisce? Petronio parte e lo capisce molto in fretta e pienamente: nella Ville Lumière deve sfangare il pranzo con la cena, il sussidio passato dal Partito consiste in un giaciglio dentro un ostello, per il vitto non si capisce bene chi e cosa paga, insomma si saltano i pasti. Ad ogni modo, per noi, ascoltare questi racconti riguardanti la sua vita prima che lo conoscessimo era quasi un delirio. Parigi? Corrispondente del Secolo? Ma cosa c’era di più e di meglio nella vita per un giovane “nero”, nei nostri oppressivi anni ’70? A Parigi! Anche a costo di fare la fame.

La scena nazionale e internazionale

Tirando le somme, Petronio era un soggetto che nessuno, neanche oggi - dopo trent’anni - può inquadrare in uno schema, in una definizione, in un banale clichè, Si trattava di un personaggio molto molto speciale, lo sapevano tutti, in Partito. Era una specie di pistola gentile, sparava solo parole e fiori, magari con qualche spina urticante, ma non era un violento. Era un buono, e mi sto chiedendo se lo avessero viziato un po’ tutti, a cominciare da Almirante e Romualdi. Noialtri suoi amici, ovviamente, non solo lo viziavamo ma lo avevamo eretto a nostro iconico modello. Avevamo compreso anche noi quanto e cosa rappresentasse, per monumenti quali Almirante, Romualdi, Rauti e per tutto il nostro fantastico ma piccolo mondo antico, questo patriota di grande cultura mitteleuropea, amante di Nietzsche e di Goethe.

Da sinistra: Giorgio Almirante, Donna Assunta, Pino Rauti

Ci sono poi le tappe di Berlino, poi Milano e infine, nel 1972, Petronio viene eletto alla Camera dei Deputati. Nel 1979 entra nel Parlamento Europeo con altri 3 eletti: Almirante, Romualdi e Buttafuoco, una squadra che lèvati. Le sue battaglie per Venezia, per il Po navigabile, la sua strenua e documentata difesa del nucleare come risorsa irrinunciabile per il nostro Paese, la sua conoscenza delle tecnologie necessarie per la fusione, i suoi meriti, sia come parlamentare che come uomo di Partito erano noti a tutti. La sua visione del sistema e del mondo, basata senza troppi se e senza troppi ma sulle alleanze anticomuniste era salda e sfidando l’impopolarità arrivò a scegliere l’inglesità delle Falkland e non, come fece la gran parte dei nostri giovani, l’argentinità delle Malvinas. Noi brontolammo, e non poco. Poi, faticosamente e lentamente, capimmo. La prospettiva indiscussa dell’Occidente e dell’Europa fu una lunga difficile faticosissima digestione, anche e soprattutto per i ragazzi di allora.

Il triestino era un pozzo di cultura, ma era proprio il contrario dell’intellettuale, scartava come un purosangue, era umorale. E tutti ben sapevano che, se volevi ammansire un congresso esaltato dalle visioni immaginarie di Rauti o di qualsiasi altro oratore che scaldasse a dismisura menti e cuori invitandoli a scorciatoie rivoluzionarie, sognando percorsi o “sfondamenti a sinistra” tanto suggestivi quanto utopistici, non dovevi chiamare qualche eccellente parlamentare missino dal pedigree borghese e dai toni moderati, qualche almirantiano fedelissimo alla linea. Dovevi per forza chiamare lui, il più matto di tutti. E infatti Almirante, ogni volta con visibilissima preoccupazione ma consapevole di quanto fosse irrinunciabile, dopo il più temibile avversario interno faceva sempre parlare lui, Franco Petronio. Arrivava quel giuliano maledetto, e gli toccava parlare subito dopo la standing ovation tributata all’oratore precedente. Compito arduo ma non aveva paura o la mascherava benissimo. Iniziava piano piano, tono pacato, quasi meccanico. Poi, improvvisamente, scoppiava il botto: voce persuasiva, talvolta perentoria, eloquenza efficace, passaggi ironici fino a sfiorare un irridente sarcasmo, linguaggio colto ma comprensibile, trascinante... devastante per le tesi avverse... un crescendo inarrestabile di idee idee idee. Il tavolo si rovesciava letteralmente, il pubblico diventava una tifoseria impazzita, ricondotta ad applaudire la sua vera squadra: i boati susseguenti alle sue parole e ai suoi concetti risuonavano in maniera impressionante, i congressisti si emozionavano, si commuovevano, si ritrovavano compatti sulle posizioni che Petronio aveva illustrato e che erano l’esatto contrario di quelle appena ascoltate. Non ce n’era, per Rauti, per Niccolai, per Cerullo, per nessuno dei migliori speaker di tutto l’MSI. Alla conclusione, tutti in piedi, compreso il palco con tutti i maggiorenti. Almirante osservava sornione come un gatto che ha ingoiato il topo, Romualdi accennava un sorrisetto di orgoglio e di compiacimento.

https://www.dellarepubblica.it/congressi-msi

Torino, anni settanta

Un giorno, fine anni ’70, passando davanti ad una di quelle cabine telefoniche della SIP presenti in tutta la città, Petronio ci fa: «tra qualche tempo ’sta roba potremo tenercela in tasca, telefonarci, farci i conti e le fotografie». Si rimaneva abbagliati di fronte a queste sue avveniristiche uscite su vari temi, dal clima all’energia, dallo sviluppo tecnologico al futuro della ricerca medica (ci parlava di trapianti, di ciclosporina, di rigetto: allora Google non c’era, toccava andare in biblioteca o pietirgli ragguagli da ignoranti confessi).

Da destra: Franco Petronio (seduto) con gli amici torinesi Massimo Massano, Walter Altea e Mariano Girardello

Noi annuivamo, un po' imbarazzati, con un sentimento compreso tra una pigra vergogna e la volontà di emularlo. No, non aveva la palla di vetro, Franco Petronio, ma leggeva studiava prendeva appunti e se si imbatteva in qualche autore, uno scienziato, un qualsiasi Dottor Stranamore al di qua o al di là dell’oceano che sembrasse avere le traveggole se ne innamorava di colpo e ne divorava saggi, articoli, libri. Tutto ciò che rappresentava cultura di novità, sviluppo, crescita scientifica si integrava in lui con quel suo moderno conservatorismo politico, eterno sogno di una grande destra politica. Una destra di cui conosceva e voleva ben custodire, senza tralasciarne alcuna, le lontane radici, storiche, risorgimentali, dannunziane, futuriste, fasciste, ma che leggeva come una dinamica capacità di evolversi in un continuo adattarsi alla realtà contemporanea.

Il saluto romano

«La destra non è una camicia nera e un saluto romano» ci diceva ogni tanto di fronte a qualche nostra giovanile intemperanza, dimenticandosi le sue. E le sue letture, le sue citazioni, da Hemingway, a Gentile a Baudelaire a Junger, passando per Celine, Verlaine, Spengler, Drieu, Mishima, Evola, Cioran, Rimbaud, Pound, Prezzolini, Marinetti, Macchiavelli, Junger ed un’enormità di altri, che lui ricordava perché li aveva tutti letti, non su un Bignami o su Wikipedia, di cui allora forse solo lui poteva immaginare la nascita, oppure quando, incredibilmente, già ci parlava di Intelligenza Artificiale, rappresentavano tutti momenti di grande arricchimento per tutti noi “devoti”, anche se ce le impartiva in qualche osteria. Sì, Petronio era un homo politicus, una specie di Paul Valery in salsa italica, una magica compiutezza incompiuta e anche chi l’ha potuto conoscere bene saprà difficilmente spiegarvi questa straordinaria stravaganza tutta italiana.

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Roma, maggio ’88

Un chissà chi, ma credo che fosse proprio Franco Petronio il divulgatore ufficiale, ci riferì le ultime predittive parole di Pino Romualdi: «È la prima volta che chi scrive un coccodrillo muore prima del morituro». Il coccodrillo è il pezzo commemorativo confezionato dalle redazioni più previdenti prima della morte del de cuius. Sostanzialmente è un necrologio ante mortem, che molti ritengono un pericoloso portasfiga. Questa frase, pronunciata con sottile ironia da parte di colui che, unico, poteva talvolta furiosamente zittire Almirante e sua moglie (una volta lei lo rimbeccò su questioni politiche e lui esplose inviperito: «Assunta, tornatene subito tra le tue pentole!» E leggenda racconta che quel peperino, sotto lo sguardo incazzoso del marito, in silenzio si avviò rassegnata verso la cucina), proprio quest’ultima frase di Romualdi attenuò quello stato di smarrimento che ci aveva travolto, tra centinaia di migliaia di italiani con la fiamma nel cuore, in quei terribili 21 e 22 maggio. Romualdi consegnò il suo articolo su Almirante al redattore del Secolo, l’articolo venne pubblicato il giorno successivo alla morte di Almirante, mentre Pino se n’era già andato, con l’estrema rivendicazione di superiorità verso Giorgio, l’amico e rivale di sempre, anche in questa gara alla volta di Caronte. Brutte tristi indimenticabili giornate, per me particolarmente dolorose perché chi aveva battuto tutti in questa competizione in articulo mortis fu mio padre Ferdinando, medaglia d’oro vinta due giorni prima, il 19 maggio 1988. La scomparsa di Romualdi rappresentò l’inizio della fine elettorale, politica, esistenziale ed infine fisica del triestino dagli occhi azzurri e dall’oratoria esplosiva.

https://www.radioradicale.it/scheda/56951?i=2435749

Bianca

Per fortuna che c’era lei, il suo vero pilastro. Una donna che lo ha saputo affiancare e sorreggere per un’intera esistenza. La loro vita privata era con tutta evidenza quella delle vecchie aggregazioni familiari dei nostri tempi: comanda la donna, il marito non conosce neanche il significato della parola patriarcato, si adatta, limitandosi a fare spesso e inutilmente la voce grossa. «Franchino, Franchino non fare così». La sento, la sento proprio, non è un’allucinazione. È la Bianca, vuol placare il marito che la sommerge di crudeli e volgari citazioni letterarie e di insulti (spesso frutto di rimandi poetici di ontoso dantesco metro, lo giuro) perché lei vorrebbe farlo smettere (almeno sospendere) di bere. Lui rallenta immediatamente (le urla), tenendo bene in pugno il calice appena colmatogli da un fedele scudiero e, in un sussurro inerziale prima del sorso le rivolge un amoroso «Putanun, putanun!», poi torna ad occuparsi di noi. È isolata, poverina, nella sua sterile crociata antialcolica: vive da sempre nel profondo dissenso di tutti i camerati che bevono con e si bevono Petronio. Dopo cena, a casa, ha però un colpo segreto, lo chiama «il colpo della tartaruga», quello che fa cadere a schiena in giù sul letto questo nostro Bukowski nato nella “piccola Vienna col mare”. Per rialzarsi serve Bianca, lui protesta poi si placa e tralascia il bicchiere per un libro. Sa perfettamente che quello di sua moglie è un amore shakesperiano, immutabile, invincibile. E alla sua maniera, silenziosamente ma grandiosamente, lo ricambia.

Bianca e Franco Petronio con Elena e Massimo Massano

Roma, giugno 1989

L’Europarlamentare Petronio, uomo che con onore ha promosso per 10 anni In Europa l’immagine di una destra nazionale italiana, aperta, colta, presentabile e competente, viene ripresentato in lista per la campagna elettorale dell’89. Un qualche amico gli sconsiglia di accettare la candidatura: era, con tutta evidenza, solo di facciata, perché la lista è costellata di trappole. Una “convergenza” di interessi, costruita a tavolino appena scomparso il padre politico Pino Romualdi , ma già emersa al congresso di Sorrento, ha creato già da un anno un asse interregionale che, dalla Puglia alla Campania alla Lombardia, ha costruito l’imbuto in cui si infilerà senza scampo Franco, orfano del suo storico garante. Non fu bello, anzi fu orribile... ma è la politica, bellezza. La tenaglia delle preferenze scatta inesorabile, Franco perde ovunque, salvo che a Torino. Muore elettoralmente e conclude la sua vita politica. È un trauma forte, devastante. Per lui ormai c’è solo l’adorata Bianchina, non si fida più di nessuno, neanche dei suoi fedelissimi, neanche di quelli torinesi. Si tagliano i ponti, si concludono i rapporti, la tragedia umana ed esistenziale si consuma, senza grida ma con tante lacrime, per qualcuno virtuali, per qualcun altro anche liquide. Ma private, nessuno sa, nessuno vede, tra i “fasci”, come ci definivano, c’è ritrosia ad esibire emozioni e sentimenti.

Noialtri

Non che non volesse più bene a quel suo gruppo di irriducibili seguaci. Quando affrontò il duro distacco dalla politica, ci ricomprese nella stessa. A Laigueglia per noi non c’era spazio, l’esilio è un’impresa solitaria e lui così voleva viverla. Gli anni della piccola comunità, minoranza della minoranza della minoranza, avevano creato un legame che, nei suoi aspetti formali, aveva motivo di sopravvivere solo in presenza dell’impegno politico. Forse la nostra unità era anche una sorta di scappatoia esistenziale, per esorcizzare la nostra emarginazione e le violenze minacciate e subìte dai picchiatori veri, quelli rossi, quelli del “fascisti carogne tornate nelle fogne”. Noi, tra i missini, ci sentivamo i Petronio boys, e lui era il nostro faro: intellettuale, culturale, pre e metapolitico. Pendevamo dalle sue labbra e ci formavano non solo alla politica ma anche ad una vita capace di coltivare il primato delle idee, degli obbiettivi, dei valori. Occhio, tutto ciò senza enfasi: la retorica ci faceva rizzare il pelo sulla schiena, odiavamo ogni forma di mistificazione falsa e ampollosa. Nessuno di noi arrivava dalla Sorbona, per carità. Ma, coesi per Franco e con Franco, alcuni di noi erano spinti a cercare di apprendere crescere imparare, altri invece legati solo da una grande attrazione meccanica verso quel singolare magnete intellettuale e umano. Mariano Girardello, colui che lo fece conoscere a noi di Torino (le parole non le ricordo, ma quando ci parlò di quel Petronio ce lo rappresentò come una specie di divinità politica, un gigante. E quando lo conoscemmo capimmo che aveva detto esattamente ciò che poi in effetti risultò). Quando ci fu il distacco anche per noi fu dura, fu l’uscita definitiva dalla nostra gioventù.

Franca

Il dormiente thanatos esistenziale del cinquantasettenne Petronio divampa qui, dopo una notte torinese di sofferenza nell’attesa dei risultati elettorali. Lui si lascia andare ma il suo angelo Bianchina lo trascina a Milano e infine se lo porta a Laigueglia, in riviera.

Passano i mesi, poi spunta Franca. Franca è figlia di primo letto di Bianca, ma non si vedono da quando mamma se ne andò per altri lidi, per altre vite, per altri amori. Franca è cresciuta, scopre che mamma è la moglie di un uomo che le descrivono come straordinario. Vuole ardentemente ricontattare sua madre che non ha più visto per lunghissimi 38 anni, e inizia prendendola alla larga. Si informa e segue già dagli anni ’80 e a lungo le tracce dell’uomo pubblico. Va a vedere comizi, conferenze, dibattiti e lì avvista: Bianca tra il pubblico, in prima fila. Lui è sul palco, parla affabula la affascina fino ad una ipnosi adorante.

Boh, seppi dopo parecchio tempo come riuscirono a conoscersi ed incontrarsi. Franca fa arrivare alla madre che non vede da decenni, da quando era piccola, l’ennesima lettera toccante . La prega, la implora, Bianca stavolta si chiede finalmente cosa fare, lei con quel passato aveva voluto chiudere ma in questo caso per lei, chissà come e perché, è diverso. Tuttavia teme che Petronio la prenda male. Gliene parla e, sorpresa, il rude marito si intenerisce, sì sì, incontriamola. Si vedono e scoppia il grande amore, Franco diventa padre, il più affettuoso dei padri pur non avendo mai in vita sua contemplato neanche lontanamente di divenirlo.

Ciò che proprio non ricordo come pure io, con mia moglie Elena, Gianni Stornaiuolo, Mariano Girardello, Nestore Crocesi, Mario Deandreis, Walter Altea, Peppino Moscarella e qualche altro epigono di Petronio, rientrammo in questa meravigliosa storia, ritrovandoci finalmente in Liguria in una serena famiglia ricongiunta. Credo sia stato merito di Bianca, ma anche della vera e propria “mutazione” psicologica di Franco, realizzatasi quando nella sua omonima scoperse la meravigliosa immensità di una “figlia” (ma posso scriverlo anche senza virgolette) che seppe erigergli un monumento fatto di rispetto, affetto, ammirazione. Una condizione finalmente “normale” nella sua vita avventurosa, che ne ha spostato di anni la scomparsa, ridonandogli amore e serenità, traumaticamente persi dopo la fine del suo impegno politico.

Torino, 2024, trent’anni dopo

La morte fisica, Franco, viene a cercarsela a Torino, in una clinica che al di fuori dello pseudo pedigree non aveva neanche una camera di rianimazione. Penso che la scelta di Torino sia stata dettata dal desiderio suo e di Bianca di avere vicino Franca, la figlia adorata, che qui vive. In ogni caso, se avesse mai saputo che gli stiamo predisponendo una commemorazione per il trentennale, ci avrebbe tolto il saluto. Nel senso che ci avrebbe letteralmente mandati a cagare, in primis per una scaramanzia (ormai postuma) e poi perché non si sarebbe mai fidato della nostra ma soprattutto della mia prosa, dei miei ricordi e, infine e particolarmente, della mia capacità di rappresentare ciò che lui è stato nella grande storia della destra italiana del secondo dopoguerra.

Comunque l’anno che ha scelto per salutarci è il 1994. Si è appena insediato il primo governo Berlusconi, il MSI-DN, sdoganato dopo mezzo secolo di isolamento, è al governo, una prima importante tappa è stata raggiunta, Franco, salute pessima, è felice del successo. Chissà cosa direbbe oggi, apprendendo che a Strasburgo e a Bruxelles quei quattro apostoli della destra italiana del 1979 si sono sestuplicati. E, dopo 45 anni, sempre sotto il glorioso simbolo della fiamma tricolore, esportano qualcosa di assai vicino a quella sua idea originale ed evoluta della politica. La sua vera dimensione non è stata solo quella di essere una meta culturale per tanti giovani, ma soprattutto quella di essere un interprete della grande transizione tra il reducismo e i grandi scenari della destra europea e mondiale, prima ancora che i missini, dagli stessi Fini e Tatarella, si avviassero verso Fiuggi col precipitato dottrinario dei romualdiani e di Petronio, fin lì rappresentati - all’occorrenza delle polemiche interne - quasi come degli apostati, piccoli ma fastidiosi agitatori afascisti o peggio.

The end

Franco Petronio trova la sua tragica grandezza proprio nel non aver percorso quel viale immenso che gli si apriva a fronte delle sue capacità fuori dal normale. Ha scelto appunto una compiuta incompiutezza metapolitica o il suo viceversa, da idealista realista capace di cavalcare la grande cultura della contraddizione, più e meglio di Sciascia. Lui resta nella nostra storia proprio perché ha scelto - ne sono certo - di volerne restare fuori. Sì, voleva restarne fuori, ma ci è riuscito? Che un apprezzato parlamentare dei Fratelli d’Italia, giornalista ed editore, Alessandro Amorese, con meritoria intelligenza politica, decida a trent’anni dalla sua morte di dedicargli un Liber Amicorum ci dice che no, non ci è riuscito, a Dio piacendo! Petronio sta qui, vivo come quando traversava Trieste affrontando a testa alta la bora e l’odio comunista. E penso che, sornione, alla fin fine non gli dispiaccia. Anche se a dirgli «sei tu l’erede di Almirante» non solo non si schermiva con falsa pudicizia come avviene sempre in questi casi con i tanti vanèsi dello spettacolo, dello sport, della politica. No, ti guardava come si osserva un cretino e ti mandava affanculo senza troppi fronzoli. Era un uomo autentico, consapevole paradossalmente più dei suoi limiti che delle sue superiori qualità e odiava gli adulatori, pur avendo, senza volersene render conto, un tratto aristocratico di origine asburgica ed un rarissimo inclusivo fascino intellettuale. Era un uomo moderno, le sue intuizioni sono attuali oggi come ieri e come lo saranno domani, non era legato a futili nostalgismi. Ma che sia ben chiaro: non dimenticò mai le sue origini di giovane missino, anche se ci raccomandava sempre di evitare inutili ostentazioni nostalgiche. Eravamo d’accordo, ci aveva convinto che ciò che contava non era la forma. Concludiamo: il commiato avvenne in una specie di sottoscala della clinica, la federazione torinese aveva incredibilmente rifiutato di concedere alla salma la camera ardente nella sede del Partito, in corso Francia. Quando nel seminterrato hanno chiuso la bara, lui era troppo alto, dovettero togliergli le Timberland e mettergliele di fianco (bloccai per miracolo uno scriteriato attivista che se le voleva prendere). Beh, io non sono riuscito a trattenermi e l’ultimo saluto gliel’ho fatto. Alla vecchia maniera.

Il mio coccodrillo finisce qui, Spero che Franchino mi perdoni, che riaccenda per un attimo quei celesti fanali triestini, che ci saluti Bianca e ci rivolga un sorriso dei suoi, tra il complice, l’ironico e il triste.

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