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IL REPORTAGE

Siamo stati in carcere. Ecco la vita in cella fra rabbia e speranza

Spazi minuscoli e detenuti malati che chiedono aiuto «Ma i medici non vogliono più lavorare in questo posto»

Siamo stati in carcere. Ecco la vita in cella fra rabbia e speranza

Padiglione C

Sono le 6 di un martedì pomeriggio. È il 20 agosto. Sono appena uscita dalle Vallette, dopo 6 ore. Mezza giornata in carcere non basta per comprenderlo ma sicuramente è abbastanza per cogliere aspetti che nel “mondo dei liberi” faticano a saltare agli occhi. I padiglioni di cui quotidianamente si sente parlare non si vedono da fuori. Edifici bassi, vecchi e mai ristrutturati che lasciano intuire siano abitati solo da dettagli come le scarpe annodate alle sbarre delle finestre.


I corridoi di questi blocchi sembrano infiniti. La luce filtra timida attraverso altre finestre e va a illuminare muri che a modo loro raccontano storie diversissime tra loro. Da quelli appena ridipinti a quelli che non vedono una mano di bianco da tanto, troppo tempo: dai variopinti disegni ai cartelli che dettano le regole del posto dove ci troviamo. Mi accompagnano la direttrice Elena Lombardi Vallauri e la dottoressa Arianna Balma, responsabile dell’area trattamentale del Lorusso e Cutugno. Le donne vengono fermate da qualcuno ogni dieci passi che fanno. Detenuti, agenti, operatori. «Direttrice, ha un minuto?» la donna prende carta e penna. Segna nome, cognome, richiesta. 10 passi. «Dottoressa, posso?» Altri 10 passi: «Scusi, è urgente. La mia ernia, l’operazione. Aspetto da un po’» chiede un uomo. Nel penitenziario ci sono anche alcune problematiche molto simili a quelle che si trovano fuori.


«Lavoro in carcere da 35 anni» spiega Roberto Testi, responsabile Asl per la struttura «Siamo sotto organico anche noi. Mancano almeno 8 unità. Nessuno vuole venire a lavorare qui. Un ambiente troppo poco sicuro. Per gli stessi soldi, un giovane preferisce fare la guardia medica.» Passiamo davanti alla cucina. La stessa cucina che serve i pasti a tutti i detenuti, tranne di un padiglione, ma di quello parleremo poi. Mille persone mangiano cosa viene cucinato in quella cucina. «C’è un menù stagionale» e per chi ha esigenze specifiche? Mussulmani, celiaci ad esempio? «Se ci sono diete prescritte ne teniamo conto».

Ma la contaminazione è certa. «Una cucina è troppo poco» ammette la direttrice. In tanti mangiano in “stanza”. Una cella di 9 metri quadrati per mangiare, dormire, leggere, andare al bagno e cucinare la propria spesa. Spesso abbiamo scritto sulle nostre pagine del problema dei fornelli a gas. Costosi, difficili da smaltire, pericolosi. Ci sono detenuti che si sono ammazzati con quel gas, altri hanno colpito compagni o agenti. «Non possiamo usare le piastre elettriche. Inciderebbero tantissimo sulla bolletta, già salata».


Mi aspettavo un carcere immobile, cristallizzato per il mese di agosto. Le attività sicuramente sono meno, ma ci sono. C’è chi studia, grazie ai professori che vengono a insegnare. In tanti lavorano. E in molti non fanno nulla. Ma non è questione di periodo dell’anno: non c’è spazio. Non c’è posto per altri edifici. Questo posto sta esplodendo. Nonostante i detenuti che intervisto - da sola - mi parlano di personale che ci prova a migliorare le cose. E non ci sono soldi per tante cose. O mancano le risorse. «Ci sono le palestre, nei padiglioni. La boxe, ad esempio, non la facciamo più». E intanto sono davanti a un “cortile passeggio”. E capisco perché lo chiamano cosi. Un piccolo fazzoletto di cemento dove trascorrere, in centinaia, l’ora d’aria. Aria ferma. Come l’esistenza che si vive qui.

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